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Il danno risarcibile

Come è noto, il danno risarcibile si divide nel danno patrimoniale e nel danno patrimoniale.
Circa il danno patrimoniale, l’art. 1223 c.c. dispone che il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore (cd. danno emergente), come il mancato guadagno (cd. lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (cd. principio della causalità giuridica).
Con riguardo al danno emergente, vi rientrano senza dubbio gli esborsi monetari o diminuzioni patrimoniali già intervenuti, ma anche “l’obbligazione di effettuare l’esborso, in quanto il “vinculum iuris”, nel quale l’obbligazione stessa si sostanzia, costituisce già una posta passiva del patrimonio del danneggiato, consistente nell’insieme dei rapporti giuridici, con diretta rilevanza economica, di cui una persona è titolare” (Cass. 22826/2010). Il lucro cessante, invece, riguarda una prospettiva economica futura (reale e concreta), venuta meno a causa dell’inadempimento.
Il cd. danno da perdita capacità lavorativa specifica rientra, per giurisprudenza costante, nel danno patrimoniale, e spetterà al danneggiato dar prova, anche tramite presunzioni, “dello svolgimento di un attività produttiva di reddito e di perdita, dopo l’infortunio, della capacità di guadagno rispetto a tale attività ovvero della capacità, anche generica, di attendere ad altri lavori confacenti alle attitudini del danneggiato” (Cass. 17167/2012; Cass. 10074/2010).
La Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che: “il danno per perdita del reddito deve essere integralmente risarcito come danno emergente (poiché, quando manca il reddito emerge la necessità di ricorrere al risparmio accumulato o all’indebitamento) e lucro cessante (per il mancato guadagno che si protrae per l’intera esistenza), non dovendosi operare una compensazione e quindi, una diminuzione del danno patrimoniale del lavoratore, in considerazione della permanenza della capacità lavorativa generica, la cui riduzione o perdita è inerente al valore dell’uomo come persona e deve essere valutata all’interno della liquidazione del danno biologico.” (Cass. 2589/2002).
Inoltre “Ai fini della valutazione del danno patrimoniale da lucro cessante per perdita della capacità lavorativa specifica, sono applicabili i criteri indicati dall’art. 2057 c.c., in base ai quali, quando il danno alla persona ha carattere permanente, la liquidazione può essere fatta dal giudice sotto forma di rendita vitalizia, valutando d’ufficio le particolari condizioni della parte danneggiata e la natura del danno” (24451/2005).
Il danno non patrimoniale, si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati di rilevanza economica. Al riguardo il Giudice di Legittimità, ha chiarito e delineato sia il concetto di “danno non patrimoniale”, come categoria unitaria comprendente il danno biologico, il danno morale, il danno esistenziale, il danno da perdita di capacità lavorativa generica, e ne ha stabilito la disciplina risarcitoria.
In sintesi, la Suprema Corte ha sancito quanto segue.
Il danno non patrimoniale, normativamente previsto dall’art. 2059 c.c., deve essere riconosciuto:
1) in tutti i casi in cui sia espressamente previsto dalla legge (ad es. art. 185 c.p.);
2) al di fuori dei casi determinati dalla legge, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili (cfr. Cass. 8827 e 8828 del 2003), e ciò indipendentemente dalla natura contrattuale o extracontrattuale della fonte della
responsabilità civile (Cass. S.U. 26972/2008).
Il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria, nella quale vanno ricompresi il danno biologico, il danno morale, il danno esistenziale, il danno da perdita di capacità lavorativa generica, danno da perdita del rapporto parentale, etc. Infatti, il riferimento a determinati tipi di pregiudizio (biologico, esistenziale, etc.) risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
Fermo quanto sopra, e cioè l’unitarietà del danno non patrimoniale, la Suprema Corte (Cass. S.U. 26972/2008) precisa che, sono suscettibili di risarcimento di danno non patrimoniale, oltre ai casi sanciti dalla legge, tutti i casi di lesione di un interesse costituzionalmente protetto, tra i quali si annoverano (a titolo esemplificativo):
– il cd. danno biologico (quale lesione del diritto alla salute, art. 32 Cost.), figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamicorelazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Al danno biologico, al quale deve essere riconosciuta una portata sostanzialmente omnicomprensiva, devono essere ricondotti:
() il danno morale, quando integri una degenerazione patologica,
() il danno esistenziale o danno alla vita di relazione, conseguente alla lesione all’ integrità psicofisica
() il cd. danno da perdita della capacità lavorativa generica (Cass. S.U. 2008/26973)
– il cd. danno morale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto in sè considerato. Ma laddove tale sofferenza abbia prodotto delle degenerazioni patologiche, si rientrerà nel cd. danno biologico.
– il cd. danno da perdita del rapporto parentale, quale lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.);
Quanto ai criteri di quantificazione del danno biologico, la Cassazione con sentenza n. 12408/2011, facendo espresso richiamo alla propria funzione nomofilattica, ha sancito i seguenti principi:
a) Nell’ipotesi di lesioni di lieve entità (postumi permanenti non superiori al 9%) derivanti da circolazione dei veicoli a motore e natanti (sinistri stradali), la liquidazione del danno biologico dovrà avvenire secondo i criteri di cui all’art. 139 Cod. Assic. (ossia utilizzando le tabelle di cui al decreto ministeriale).
b) Negli altri casi, si tratti di lesioni di lieve o grave entità, i criteri da adottarsi per la liquidazione del danno all’integrità psico-fisica dovranno essere quelli tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano (cd. Tabelle del Tribunale di Milano), i quali “costituiranno d’ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi “equo”, e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l’entità”.
In ogni caso, nella liquidazione del danno, il Giudice, nell’avvalersi delle sopra dette tabelle, dovrà “procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (Cass. S.U. 26972/2008)
La Suprema Corte (sent. 12408/2011 citata) giunge a tali conclusioni interpretando il concetto di equità (presente in numerose norme del codice civile, e non solo), il quale racchiude in sè due caratteristiche, che rispondono alla necessità di contemperare due diverse esigenze:
1) La prima è l’essere essa uno strumento di adattamento della legge al caso concreto.
2) La seconda è di garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale, o viceversa: sotto questo profilo l’equità vale ad eliminare le disparità di trattamento e le ingiustizie. Alla nozione di equità è quindi consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione.
Equità, in definitiva, non vuoi dire soltanto “regola del caso concreto”, ma anche “parità di trattamento”, e così intesa essa costituisce strumento di eguaglianza, attuativo del precetto di cui all’art. 3 Cost., perchè consente di trattare i casi dissimili in modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio.
Con riferimento alla liquidazione del danno biologico nella motivazione della sentenza 14 luglio 1986, n. 184, la Corte Costituzionale chiarì che nella liquidazione del danno alla salute il giudice deve combinare due elementi: da un lato una “uniformità pecuniaria di base”, la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto; dall’altro elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione sulle attività della vita quotidiana.
Il criterio della compresenza di uniformità e flessibilità è stato condiviso da questa Corte, la quale ha ripetutamente affermato che nella liquidazione del danno biologico il giudice del merito deve innanzitutto individuare un parametro uniforme per tutti, e poi adattare quantitativamente o qualitativamente tale parametro alle circostanze del caso concreto.
Il conseguimento di una ragionevole equità nella liquidazione del danno deve perciò ubbidire a due principi che, essendo tendenzialmente contrapposti (la fissazione di criteri generali e la loro adattabilità al caso concreto), non possono essere applicati in modo “puro”. Il contemperamento delle due esigenze di cui si è detto richiede sistemi di liquidazione che associno all’uniformità pecuniaria di base del risarcimento ampi poteri equitativi del giudice, eventualmente entro limiti minimi e massimi, necessari al fine di adattare la misura del risarcimento alle circostanze del caso concreto.
Pertanto, il Giudice di Legittimità, richiamando il proprio ruolo nomofilattico, ritenendo necessario individuare criteri uniformi per la liquidazione del danno biologico (fermo il principio di adattamento al caso concreto), ha individuato nelle Tabelle di Milano i parametri da applicarsi a livello nazionale, dato anche il loro già diffuso utilizzo nei Tribunali del Paese.

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

Il consenso informato

Nella recentissima sentenza della Suprema Corte, sentenza n. 20984 del 27/11/2012, nella quale viene efficacemente riassunta la disciplina in materia, si legge: “Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza il consenso informato l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente.
Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell’eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla; e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale (v. per tutte Cass. 16.10.2007 n. 21748).
Secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub n. 4 del Considerato in diritto) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32
Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso informato discende a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all’adempimento dell’obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto b) dal verificarsi – in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa – di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente.
Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno.
Ciò perchè, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (v. anche Cass. 28.7.2011 n. 16543).
In ordine alle modalità e caratteri del consenso, è stato affermato che il consenso deve essere, anzitutto, personale: deve, cioè provenire dal paziente, (ad esclusione evidentemente dei casi di incapacità di intendere e volere del paziente); deve poi essere specifico e esplicito (Cass. 23.5.2001 n. 7027); inoltre reale ed effettivo; ciò che vuoi significare che non è consentito il consenso presunto; ed, ancora, nei casi in cui ciò sia possibile, anche attuale (v. per le relative implicazioni Cass. 16.10.2007 n. 21748).
Infine, il consenso deve essere pienamente consapevole, ossia deve essere “informato”, dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico”.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, la giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di chiarire che, poiché il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni possibile rischio ed ogni alternativa, “nell’ambito degli interventi chirurgici, in particolare, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si
estende ai rischi prevedibili” (Cass. 364/1997), ma “Tendenzialmente anche gli esiti anomali o poco probabili – se noti alla scienza medica e non del tutto abnormi – debbono essere comunicati, sì che il malato possa consapevolmente decidere se correre i rischi della cura o sopportare la malattia, soprattutto nei casi in cui non si tratti di operazione indispensabile per la sopravvivenza”, giacchè l’informazione offerta al paziente “deve essere completa ed includere non solo la descrizione della cura o dell’intervento a cui il malato verrà sottoposto, ma anche quella delle complicazioni che – pur senza colpa dei sanitari – potrebbero derivarne” (Cass. 2483/2010, relativa ad intervento di artoprotesi d’anca cui conseguiva lesione del nervo femorale).
Quest’ultima sentenza, peraltro, riprende altro principio consolidato in giurisprudenza, secondo cui, se da un lato l’informazione al paziente può essere data con ogni mezzo, non essendo richiesta la forma scritta (pur sempre auspicabile), dall’altro lato, tuttavia, “la completa e corretta informazione non è un dato che possa desumersi dalla mera sottoscrizione di un modulo del tutto generico (Cass. civ. Sez. 3, 8 ottobre 2008 n. 24791).
Il medico (e la struttura sanitaria nell’ambito della quale egli agisce) debbono invece fornire, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente acquisite sulle terapie che si vogliono praticare, o sull’intervento chirurgico che si intende eseguire, illustrandone le modalità e gli effetti, i rischi di insuccesso, gli eventuali inconvenienti collaterali, ecc. (Cass. civ. Sez. 3, 2 luglio 2010 n. 15698).
In caso di contestazione, grava sul medico l’onere della prova di avere fornito tutte le informazioni del caso (Cass. civ., Sez. 3, 9 febbraio 2010 n. 2847)” costituendo l’obbligo di informare correttamente ed esaustivamente il paziente un aspetto dell’obbligazione sanitaria, la cui
natura contrattuale è già stata ampiamente illustrata poc’anzi.
Quindi, dall’omissione del dovere di informazione del paziente circa i trattamenti sanitari, discendono:
– la violazione dell’obbligo contrattuale che lega il medico al paziente;
– l’illegittimità del trattamento sanitario eseguito, per violazione dell’art. 32 Cost., comma 2, (in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), dell’art. 13 Cost., (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e della L. n. 833 del 1978, art. 33, (che esclude la possibilità, d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.);
– la lesione dei diritti essenziali della persona alla libera autodeterminazione ed alla volontarietà del trattamento sanitario, diritti costituzionalmente tutelati.
Ne consegue che, in caso di omessa informazione, il medico (e la struttura sanitaria) rispondono
a) sia della lesione al cd. “diritto alla libera autodeterminazione del paziente” in relazione ai trattamenti sanitari, costituente diritto autonomo, la cui violazione costituisce voce specifica di danno, con conseguente quantificazione risarcitoria anche in considerazione del turbamento e della sofferenza provocati dal verificarsi di conseguenze inaspettate (dal paziente che non è stato informato) conseguenti al trattamento sanitario eseguito (cfr. Cass. 24853/2010).
b) sia delle eventuali conseguenze nefaste dell’intervento, e ciò anche se non siano addebitabili profili di colpa (cfr. Cass. 20984/2012, Cass. 5444/2006, Cass. 9374/1997). Come si è detto, in virtù della natura contrattuale della prestazione sanitaria (a cui appartiene anche l’obbligo di una corretta informazione del paziente), l’onere probatorio di aver adeguatamente informato il paziente spetta ad debitore (medico/struttura sanitaria), incombendo sul creditore (paziente) l’onere di provare il contratto (o contatto), il danno e l’allegazione dell’inadempimento qualificato, che nel caso di specie consiste nella deduzione (che dovrà poi essere accertata in sede di giudizio, al fine di stabilire se l’inadempimento sia giuridicamente rilevante) secondo cui la disinformazione lamentata abbia comportato una scelta terapeutica che, altrimenti, sarebbe stata, con alta probabilità rifiutata o modificata dal paziente stesso (Cass. 20984/2012, Cass. 16394/2010).

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

Responsabilità medica

La responsabilità medica è argomento complesso, nel quale confluiscono fondamentali istituti giuridici, ed ovvie esigenze di contemperamento degli interessi contrapposti e di equità.
Il percorso giurisprudenziale, lungo e difficile, spesso è solcato da decisioni nelle quali trasuda la sofferenza del giudicante, chiamato a decidere casi umanamente toccanti, alla luce di criteri normativi non sempre adeguati.

La nota sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 577/2008, chiamata a dirimere, con funzione nomofilattica, i conflitti giurisprudenziali sussistenti in materia di inquadramento giuridico della responsabilità medica ha definito la natura contrattuale della responsabilità civile sia della struttura sanitaria (pubblica e/o privata che sia) presso alla quale il paziente si è rivolto per ricevere le prestazioni sanitarie, sia del medico che tali prestazioni abbia concretamente eseguito.
In particolare, secondo il Giudice di legittimità, la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria trova fondamento nel cd. contratto di spedalità o contratto di assistenza 2 sanitaria (che si perfeziona a con la semplice accettazione del paziente nella struttura, cfr. Cass. 8826/2007), in virtù del quale la struttura deve fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.
La giurisprudenza, sulla base di quanto sopra , è giunta a qualificare il rapporto struttura sanitaria – paziente come distinto rispetto al rapporto medico – paziente, definendo il cd. contratto di spedalità come autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive, dal quale derivano obbligazioni di rettamente riferibili all’ente (ex multis, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) con conseguenti peculiari profili di responsabilità , che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, ed al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c.
Ne consegue che può aversi una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato
a) Sia per il fatto della struttura stessa (es. insufficiente o inidonea organizzazione)
b) Sia per il fatto del personale dipendente o ausiliario (responsabilità che va ricondotta sempre all’art. 1228 c.c., per il principio secondo cui secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle proprie dipendenze).
L’orientamento giurisprudenziale dominante qualifica come contrattuale anche l’obbligazione del medico nei confronti del paziente.
Il fondamento giuridico deve essere ravvisato , a seconda dei casi:
a) nell’ipotesi di un rapporto proprio tra medico e paziente, nel contratto specifico intercorso tra i due (es. ambulatorio privato), il quale assumerà, a seconda dei contenuti, la configurazione di un contratto di prestazione d’opera professionale, di un contratto complesso, etc.
b) nell’ipotesi, invece, di un rapporto tra il medico e paziente che trovi la propria occasione nel “ contratto di spedalità ” intercorso tra un paziente ed una struttura sanitaria, in virtù del quale il medico (dipendente o comunque incardinato 3 nell’ente) esegua la prestazione sanitaria, il fondamento della responsabilità del medico nei confronti del paziente viene individuato nel cd. contatto sociale (cfr., senza pretese di completezza Cass. 589/1999, Cass. S.U. 577 /2008).
Nella sentenza n. 8826/2007, la Suprema Corte precisa che il cd. contatto sociale costituisce fonte di un rapporto (contrattuale) avente ad oggetto una prestazione che si modella su quella del contratto d’opera professionale, in base al quale il me dico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto “contatto”, e in ragione della prestazione medica conseguentemente da eseguirsi.

La responsabilità medica a seguito dell’intervento Balduzzi.

Come è noto il legislatore, con decreto legge n. 158/2012 (come convertito dal la legge 189/2012) ha introdotto all’art. 3, comma 1, una disposizione del seguente tenore: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo comma”.

Non sono mancate, dalla dottrina, immediate critiche alla formulazione sopra detta (definita dai più “infelice” ), la quale dunque lascia oggi agli interpreti (nell’attesa di un quanto mai sperato chiarimento legislativo) il compito di definirne ambito e portata.
In primis occorre subito rilevare che, in ogni caso, la disposizione citata lascia senza dubbio immutata la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, sia per il fatto proprio sia per il fatto del personale dipendente o ausiliario, riguardando esclusivamente la responsabilità del personale sanitario.
Con riguardo a tale ultima ipotesi (la responsabilità del personale sanitario), il riferimento all’art. 2043 c.c. contenuto nell’art. 3, co. 1° della citata l. n. 189/12 ha indotto a dubitare della possibilità di continuare ad applicare in modo generalizzato i criteri di accertamento della responsabilità contrattuale, fino a far ritenere che “ il Legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato 4 anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana ” (Trib. Varese, n. 1406 del 26.11.12).
Sennonchè, il Tribunale di Arezzo, con una recentissima sentenza (sentenza del 14/02/2013) offre una interpretazione della disposizione citata senz’altro più conforme ai principi dell’ordinamento giuridico vigente, negando che ne discenda una configurazione di natura extracontrattuale della responsabili tà del medico.
Il Giudicante, muovendo da analisi letterale del testo normativo, ne individua la ratio, rilevando come il legislatore abbia inteso, con la citata norma, escludere la responsabilità penale del sanitario che sia incorso in colpa lieve pur attenendosi alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Il secondo periodo della disposizione, continua il Giudice di merito, è riferito a tale specifica ipotesi, e chiarisce che l’esclusione della responsabilità penale non fa tuttavia venir meno l’obbligo di risarcire il danno (in ciò sostanziandosi l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.), nella cui quantificazione il giudice dovrà tenere conto dell’avvenuto rispetto delle linee guida e buone pratiche.
Pertanto, poiché la norma deve essere unitariamente interpretata, precisa la sentenza in commento, non può estrapolarsi dal secondo periodo (“ In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile” ) un principio generale ed autonomo riguardante la natura giuridica della responsabilità medica “ che imponga un revirement giurisprudenziale nel senso del ritorno ad un’impostazione aquiliana, con le consequenziali ricadute in punto di riparto degli oneri probatori e di durata del termine di prescrizione ” (come vorrebbe la sentenza del Tribunale di Varese n. 1406 del 26.11.12) .
Infatti, il generico richiamo all’art. 2043 c.c. ( senza alcuna indicazione in merito ai criteri da applicare nell’accertamento della responsabilità risarcitoria – se non che deve tenersi “debitamente conto” del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche – e senza un richiamo alle altre norme costituenti il sistema della responsabilità extracontrattuale) deve essere inteso unicamente come “ limitato all’individuazione di un obbligo (‘obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile’, che equivale a dire ‘obbligo di risarcimento del danno’) ”, non potendosi affermare “ che richiamare un obbligo equivalga a richiamare un’intera disciplina ” e dovendosi quindi concludere “ che il riferimento all’art. 2043 c.c. (si badi: non alla disciplina dell’illecito extracontrattuale, ma esclusivamente all’obbligo 5 “di cui all’art. 2043 del codice civile”) sia del tutto neutro rispetto alle regole applicabili e consenta di continuare ad utilizzare i criteri propri d ella responsabilità contrattuale ”.
Ad ulteriore sostegno delle proprie argomentazioni, rileva il Giudice di merito che “ se fosse vero che il richiamo all’art. 2043 impone l’adozione di un modello extracontrattuale, si dovrebbe pervenire, a rigore, alla conseguenza – inaccettabile – di doverlo applicare anche alle ipotesi pacificamente contrattuali (quali sono quelle ex art. 2330 e segg.), dal momento che il primo periodo dell’art. 3, 1° co. considera tutte le possibili ipotesi di condotte sanitarie idonee ad integrare reato (che possono verificarsi indifferentemente sia nell’ambito di un rapporto propriamente contrattuale, quale quello fra il paziente e il medico libero professionista, che in un rapporto da contatto sociale) e il secondo periodo richiama tutt e le ipotesi di cui al primo periodo (“in tali casi”), senza operare alcuna distinzione fra ambito contrattuale proprio ed assimilato; non sarebbe dunque consentita la limitazione (affermata per certa da Trib. Varese cit.) del ripristino del modello aquiliano per le sole ipotesi di responsabilità da contatto ”.
E concludendo “ Deve, allora, pervenirsi alla ragionevole conclusione che, conformemente al suo tenore letterale, alla collocazione sistematica e alla ratio certa dell’intervento normativo (da individuarsi nella parziale depenalizzazione dell’illecito sanitario), la norma del secondo periodo non ha inteso operare alcuna scelta circa il regime di accertamento della responsabilità civile, ma ha voluto soltanto far salvo (“resta comunque fermo”) il risarcimento del danno anche in caso di applicazione dell’esimente penale, lasciando l’interprete libero di individuare il modello da seguire in ambito risarcitorio civile. In conclusione : l’art. 3, 1° co. l. n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell’attuale inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure funzionale ad una politica di abbattimento dei risarcimenti giacché la responsabilità solidale della struttura nel cui ambito operano i sanitari che verrebbero riassoggettati al regime aquiliano conserverebbe comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di ‘spedalità’ o ‘assistenza sanitaria’ che viene tacitamente concluso con l’accettazione del paziente), ma si limita (nel primo periodo) a determinare un’esimente in ambito penale (i cui contorni risultano ancora tutti da definire), a fare salvo (nel secondo periodo) l’obbligo risarcitorio e a sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della responsabilità (con portata sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali).

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

La ripartizione degli oneri probatori

Inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio, insegnano le 6 Sezioni Unite della Suprema Corte (sent. 577/2008 citata) “deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533″, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento. Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.
Applicando tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico si è affermato che il paziente (creditore) che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto ed allegare (non provare, ma solo allegare) l’inadempimento del sanitario (inadempimento che deve essere “qualificato”, ossia astrattamente efficiente alla produzione del danno, Cass. S.U. 577/2008), restando a carico del debitore (medico – struttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta (per il riferimento all’evento imprevisto ed imprevedibile cfr.,ex multis, Cass. 2011/15993).
Inoltre, specificando ulteriormente i principi sopra detti, la Su prema Corte ha precisato che (ex multis, Cass., Sez. Un.2008/577; Cass. 2007/8826; Cass. 17143/2012):
a. in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c., il paziente – creditore ha il mero onere di provare il contratto (o il contatto sociale), il danno psico – fisico, ed allegare il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità
b. All’art. 2236 c.c., non va assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, in quanto la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà rileva solamente ai fini
della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario..

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

Le associazioni antiracket in Campania

1. brevi cenni – la nascita delle associazioni antiracket in campania

– le associazioni a napoli –

<< i risultati nella lotta alla camorra non si possono giudicare nei tempi brevi, serve impostare una strategia di lungo periodo. bisogna aver chiaro che strumento decisivo e insostituibile sono le coscienze individuali. l’esperienza antiracket è emblematica: il racket può essere sconfitto se la vittima, assumendosi una personale responsabilità, denuncia e collabora con le istituzioni; qualunque legge senza questo atto di coraggio servirebbe a poco. che serve, allora? guardarsi negli occhi per costruire relazioni di fiducia. a questo percorso non ci sono alternative>>

la decisione di denunciare passa pertanto tassativamente attraverso la possibilità per la vittima di racket o di usura di trovare nelle associazioni antiracket interlocutori capaci di ascoltare ed agire in maniera credibile e competente al contempo in grado di fungere da raccordo tra l’operatore economico ed il mondo istituzionale, autorità giudiziaria procedente e uffici territoriali del governo interessati a qualsiasi titolo della vicenda estorsiva o usuraia.
In tal senso si capisce come di fondamentale rilevanza per l’imprenditore o il commerciante che si appresta a denunciare, sia la vicinanza di persone che già abbiano percorso il suo stesso cammino.
la costituzione della prima associazione antiracket in sicilia agli inizi degli anni novanta ha dato l’esempio affinché anche a napoli, consenziente una amministrazione comunale sensibile a tali problematiche, si sia operato, a far data dal 2001 a che liberi imprenditori ed operatori commerciali trovassero il giusto stimolo a denunciare il racket delle estorsioni.
Sulla scorta di questi semplici principi napoli e la campania, sono oggi diventate simboli della lotta alla criminalità organizzata nella forma più odiosa e temuta del racket delle estorsioni. attraverso questa particolare ed odiosissima forma di violenza personale, il sodale mafioso si radica sul territorio assorbendone la linfa economica vitale. ciò crea immense sacche di povertà in cui, come in circuito vizioso, la criminalità organizzata stessa attinge al contempo manodopera da utilizzare per potenziare la propria organizzazione.
Non ci sono altre strade, l’unica via possibile è quella della denuncia, unica via percorribile è quella di creare, con ogni mezzo necessario, il terreno più favorevole a far si che l’imprenditore non sia più solo e trovi così il coraggio di opporsi al giogo del crimine organizzato.
Ad oggi napoli e la sua provincia hanno assistito al proliferare di ben otto associazioni antiracket costituite da operatori economici che hanno così deciso di dire basta al giogo della camorra. sono così nate grazie all’impegno di giovani volontari ed al lavoro incessante compiuto dai dirigenti di S.O.S. Impresa – Confesercenti e della Rete per la Legalità oramai assurte a simbolo dell’antiracket sul territorio di concerto con l’intero mondo dell’associazionismo antiracket.
Dalla nascita della prima associazione a pianura, molte sono ad oggi le associazioni fiorite sul territorio partenopeo, costituite da imprenditori, ma anche da professionisti che hanno deciso di porre le loro competenze al servizio della legalità e del sostegno alle vittime della criminalità organizzata: Rete legale Etica ne è un esempio.

Rete per la Legalità Campania e Nazionale, opera al fine di contribuire al proliferare di nuove associazioni di quartiere cui fornire il know how e l’esperienza maturata al fine di ottimizzare le energie disponibili

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Associazioni antiracket e sub-culture criminogene

Attività delle Associazioni antiracket e contrasto ad una sub-cultura criminonega – rapporti con l’associazione di tipo mafioso

Art. 416 bis c.p.: “…l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti e vantaggi ingiusti per se o per altri … se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo (in una determinata area territoriale) sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto dei delitti … nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono, o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto,il profitto o che ne costituiscono l’impiego …”

L’imprenditore commerciale rappresenta spesso l’occhio sulla strada, in considerazione dello stretto contatto con la gente e con i luoghi in cui esercita la propria attività, a prescindere dalla tipologia. Pagare il pizzo, non denunciare gli estorsori, da così potere alla mafia, la legittima pagando una tassa, in una porzione di territorio dove lo stato sembra più debole. Ma lo Stato può poco senza la collaborazione di chi su quel territorio vive e lavora.
Il controllo acquisito sul territorio ad opera del Clan crea così le condizioni a che l’organizzazione criminale incontrastata viva ed operi nello stesso. Il sodale mafioso più o meno articolato tine le fila dei traffici illeciti ( ad esempio le sostanze stupefacenti) e solo nelle fasi patologiche della propria esistenza addiviene a scontri armati con clan rivali nella propria area di operatività. Tutto è finalizzato ad accumulare immense quantità di capitali, spesso in contanti, con cui contestualmente agire sul territorio di riferimento e fuori viziandone irrimediabilmente il circuito economico sano.
La Mafia è un cancro, e la prima cellula cancerogena si forma proprio attraverso la tacita acquiescenza dell’operatore economico che, forse sotto minaccia altre volte perché protetto accetta di pagare, in tal modo riconoscendo e legittimando il potere del clan sul territorio di riferimento.
L’incessante attività di intelligence e di contrasto armato all’operatività dei Clan non può prescindere da una contestuale e capillare attività di prevenzione attraverso una attenta formazione culturale della coscienza civile. La Mafia è un fenomeno prima di tutto culturale, senza colori politici, che vive di tutto ciò che può creare accumulo di capitali leciti o illeciti. La forza del singolo imprenditore deve pertanto essere ricompresa sotto l’unico vessillo dei movimenti antiracket ed il consumatore indirizzato attraverso un Consumo Critico del proprio denaro. L’imprenditore, non più solo forte dell’appoggio della società civile e dello Stato è così in condizione di affrontare l’arduo cammino teso alla denuncia del reato subito.
Questa è la costante attività posta in essere da associazioni antiracket come S.O.S. IMPRESA, RETE LEGALE ETICA, RETE PER LA LEGALITA’ e molte altre a Napoli e nelle regioni maggiormente a rischio. Attività tese ad informare la vittima del reato della titolarità in capo alla stessa di diritti e non solo di obblighi verso i clan. Attività di prevenzione, informazione, impulso alla denuncia ed assistenza alle vittime di simili episodi delittuosi, finalizzate al ripristino della legalità nella più piena tutela del libero esercizio dell’attività economica.
L’interesse alla costituzione di parte civile è espresso attraverso criteri di collegamento quali l’ambito territoriale di operatività della associazione, in contrapposizione sempre più netta con la contestuale operatività del clan. Questo il primo compito dell’associazione antiracket: stimolare ed incentivare la costituzione, sul territorio regionale e nazionale, di un sempre maggior numero di associazioni di quartiere. L’associazionismo crea associazionismo a tutela della libertà di impresa ed è espressione del rifiuto del fenomeno mafioso da parte della società civile. Lo Stato ha il compito di garantirne la sicurezza.
La crescente presenza e visibilità del movimento antiracket sul territorio è inevitabilmente destinata a destare in maniera sempre più pressante l’interesse del sodale camorristico, che si vede man mano sottratto attraverso il crescente numero di denunce di episodi intimidatori ed estorsivi, il controllo su intere fette di territorio con conseguenti arresti e condanne.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Il danno dell’associazione antiracket

Il danno lamentato dall’associazione antiracket

“Il commerciante che paga sovraespone chi ha il coraggio della denuncia e danneggia l’intero circuito economico dato che sono, ormai, in tanti a non pagare”… “In molte parti di Italia c’è un associazionismo forte che garantisce, insieme alle forze dell’ordine, la sicurezza delle vittime. Ed ancora ..”in reati come l’estorsione, l’acquiescenza ha conseguenze negative per tutti. Insomma, l’indifferenza non è più un fatto privato …”

Questo il Giudizio più volte espresso dagli organi direttivi delle associazioni antiracket maggiormente rappresentative a livello nazionale, in riferimento alla lotta ed al contrasto al racket delle estorsioni e dell’usura. In tal senso l’associazione antiracket lamenta un danno derivante dalla lesione di un diritto soggettivo proprio del sodalizio stesso e non di un mero interesse legittimo, che attraverso la commissione di simili delitti trova la sua ragion d’essere nella frustrazione e conseguente lesione dell’interesse dei sodali ad un libero esercizio dell’attività di impresa, in qualunque forma esercitata.
S.O.S. Impresa – Rete Legale Etica svolge quotidianamente specifiche attività ed iniziative a diretto contatto con il territorio, si da essere primo referente per vittime dei reati quali usura ed estorsione garantendo, di concerto con le forze dell’ordine, la conoscenza da parte della vittima della possibilità e necessità di reagire – con ogni mezzo necessario – ai soprusi posti in essere da individui forti unicamente della loro appartenenza a sodali camorristici.
E’ facilmente individuabile in tal senso il danno diretto patito dalla associazione. Il compimento ai danni di un operatore economico, parte della rete di protezione delle associazioni, di reati aggravati dall’agevolazione alla camorra, minano grandemente gli sforzi posti in essere localmente per spronare le vittime alla denuncia. Diretta è la lesione di un diritto soggettivo proprio dell’ente.
La esistenza di sodali camorristici compiutamente organizzati, le cui attività si esplicano in maniera capillare, se non chirurgica, sull’intero territorio, nonché l’avvalersi degli associati di tale appartenenza nel porre in essere atti estorsivi rappresentano il primo ostacolo da superare per associazioni che lottano in nome della libertà di impresa.
Quale stimolo ad associarsi per chi è sul punto di iniziare il proprio percorso di resistenza attiva? Quali garanzie è in grado di offrire l’associazionismo antiracket all’imprenditore che prende atto della esistenza di un intero sodalizio mafioso dedito al compimento di simili reati nel tessuto economico in cui esercita la propria attività di impresa? A seguito del compimento dell’ennesimo episodio estorsivo diventa oltremodo arduo per l’associazione stessa spingere altri operatori economici verso quel cammino di denuncia, che solo, può garantire il libero esercizio del commercio.
L’imprenditore che fino ad oggi aveva iniziato a seguire ed a trovare la forza di reagire attraverso l’associazionismo antiracket, avuta conoscenza del compimento dell’ennesimo atto estorsivo, ai danni di un commerciante della sua zona tende a rientrare nei parametri normali ed a chiudersi in se stesso sottostando al racket e/o all’usura.
In questo senso l’associazione antiracket lamenta pertanto la lesione di un proprio diritto soggettivo con conseguente danno diretto in riferimento ad ogni episodio estorsivo compiuto da appartenenti ad associazioni camorristiche operanti nel territorio di riferimento dell’associazione.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Il diritto alla costituzione di parte civile

Il Movimento Antiracket è costituito da associazioni senza fine di lucro costituite da imprenditori determinati a non addivenire a patti con la criminalità organizzata. A livello statutario spiccano tra le principali finalità delle singole associazioni quella di contribuire alla costituzione di nuove associazioni nel rispetto di una cultura ispirata ai valori della legalità e del libero esercizio del commercio sul territorio di riferimento. Attraverso specifiche iniziative atte ad informare e sensibilizzare sul ruolo che assumono le associazioni rispetto alle vittime del racket ed alle modalità in cui reagire e resistere a tale status.
Le attività di formazione ed impulso alla denuncia insieme alla attività di assistenza alle vittime e i risultati raggiunti, vengono annoverate in una sorta di Curriculum Vitae associativo a riprova della reale operatività sul territorio di riferimento dell’associazione. La sua allegazione in sede di costituzione in giudizio, fornisce al Giudice la misura del danno prodotto con conseguente legittimazione al risarcimento del danno prodotto.
Difatti prestare assistenza e solidarietà alle vittime del racket e dell’usura attraverso la costituzione di parte civile al loro fianco, seppur tra le finalità dell’associazione, ne rappresenta comunque una fase patologica della vita. Ciò comporta il dispendio di mezzi ed energie associative – al fine di tutelare la propria posizione in sede processuale – di qui le conseguenti richieste di risarcimento danno patrimoniale (cfr. Sentenza n° 1638/08 del 26/06/08 – Tribunale di Napoli XXXII Uff. G.U.P.) e non patrimoniale.
Se questi sono i presupposti l’associazione aspira infatti a garantire agli imprenditori e/o comunque alle vittime di reati quali l’usura e l’estorsione, il libero esercizio della propria attività di impresa scevra da qualsivoglia condizionamento criminale, favorendo in tal modo il naturale sviluppo delle attività produttive a tal fine impegnando contestualmente risorse umane e economiche.
L’imprenditore viene preliminarmente formato ed informato sulla necessità e sulle modalità con cui poter reagire e denunciare. Solo in seconda istanza, quando lo stesso assume la veste di persona offesa/vittima di reato, viene assistito e coadiuvato nella fase procedimentale dalla associazione che al suo fianco si costituirà parte civile.
La scelta relativa alla costituzione nel processo dell’associazione di quartiere e/o di quelle maggiormente rappresentative a livello provinciale o nazionale, dipende dall’ambito territoriale in cui il reato è stato commesso. In tal senso, qualora nel quartiere, nel rione o nel paese, non siano ancora state costituite associazioni di imprenditori, il Coordinamento Napoletano delle Associazioni Antiracket di concerto con la FAI, tende a porre in essere tutte le iniziative finalizzate alla nascita ed operatività di nuove Associazione Antiracket.
Questo elementare sistema aggregativo è teso a riunire sotto il vessillo dell’antiracket imprenditori e commercianti di quartiere, formati ed informati sul fatto che una alternativa al mettersi a posto con il clan esiste. Nasce così in capo all’associazione, soggetto a se stante dagli imprenditori da cui è composta, il conseguente diritto al suo risarcimento del danno causato dal compimento dell’atto estorsivo nel territorio di riferimento ed in contrapposizione al Clan egemone, sempre più infastidito dalla esistenza del movimento. Questo sistema operativo ed associativo teso ad una continua gemmazione di associazioni da associazioni, tende allora a costituire la risposta della società civile allo strapotere della mafia e della camorra.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

La questione in diritto

E’ senz’altro pacifico che il danneggiato, cui ai sensi degli artt. 185 e 74 c.p.p. spetta il risarcimento e non necessariamente coincidente con la vittima del reato in senso stretto, è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione o all’omissione del soggetto attivo del reato (cfr Cass. Pen. Sez. VI, n°10126 del 1997, rv.208820).

In tale ottica gli enti e le associazioni sono legittimati all’azione risarcitoria, anche in sede penale, attraverso la costituzione di parte civile, qualora abbiano riportato dal reato un danno ad un proprio interesse, coincidente con un diritto reale o comunque un diritto soggettivo del sodalizio. Pertanto qualora tale interesse subisca un pregiudizio eziologicamente ricollegabile all’azione od omissione del reo anche il sodalizio patisce un’offesa potendo lamentare un danno non patrimoniale da reato (Cass. VI, n5971990 r.v. 182947).
Il collegamento diretto tra il reato e la lesione del diritto soggettivo vantato è facilmente individuabile nella perdita di terreno nella lotta al racket delle estorsioni subito dalla compagine associativa. Difatti l’attività di informazione e formazione, tesa a far comprendere al singolo imprenditore la necessità di dover sempre denunciare alla competente Autorità tali episodi, in tal modo rompendo il muro di omertà su cui tale attività si fonda, è di fatto seriamente compromessa dal compimento di simili episodi estorsivi. Arduo sarà tornare a “sensibilizzare” chi è costantemente vittima di simili angherie.
La lesione dell’interesse proprio della persona offesa in senso stretto, prodotto da fenomeni quali il racket delle estorsioni ed i reati “satellite” che da questo traggono origine, coincide con quello fatto proprio dal sodalizio, da questo preso a cuore ed assunto nello statuto quale ragione della propria esistenza nonché diritto assoluto ed essenziale dell’associazione stessa. Emergono, pertanto evidenti, i tratti che delineano il diritto soggettivo in capo alla Associazione Antiracket territorialmente competente alla costituzione di parte civile.
E’ la compromissione delle possibilità di attuazione dello scopo sociale, il registrare da parte dei membri dell’associazione stessa una perdita di terreno nella lotta in essere tesa alla prevenzione ed alla tutela del privato dai fenomeni dell’usura e dell’estorsione, che lede il diritto di personalità del singolo socio e del sodalizio nel suo complesso.
Difatti la commissione di reati quali l’usura e l’estorsione, in un ambito territoriale coincidente con quello in cui il sodalizio opera, portavoce dell’associazionismo tra imprenditori, quale unico mezzo per contrastare il fenomeno alla radice, con una capillare attività di contrasto e prevenzione, fa si che l’associazione stessa possa lamentare, in via autonoma, “…un danno non patrimoniale a causa della frustrazione ed afflizione di quanti si erano costituiti in sodalizio per amore di interessi nella cui cura in modo più pieno avevano ritenuto realizzare la propria personalità …” (Cass. Sez. III 13/11/1992)
Gli inequivocabili scopi sociali statutari testimoniano come il danno lamentato coincida con la lesione di un diritto assoluto ed essenziale del sodalizio costituitosi, costituzionalmente tutelato dall’art. 2 Cost.; ne consegue che ogni attentato all’interesse del sodalizio si sostanzia nella lesione del diritto di personalità del sodalizio stesso.
L’Associazione si immedesima nell’interesse perseguito, l’affectio societatis verso l’interesse prescelto è statutariamente determinato. L’associazione svolge un’azione che consente di individuare la sussistenza in capo alla stessa di un diritto soggettivo autonomo che viene leso e frustrato dalla esistenza di simili sodali camorristici.

La sussistenza dei presupposti fondanti la risarcibilità del danno in capo all’associazione si sostanziano nel nesso eziologico corrente tra la condotta criminale degli imputati ed il pregiudizio derivatone all’attività di sensibilizzazione ed impulso alla denuncia quotidianamente svolta dall’associazione nelle sue molteplici azioni sul campo.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Una creatura giurisprudenziale

La Costituzione di parte civile delle Associazioni Antiracket: una creatura giurisprudenziale

La Giurisprudenza, di legittimità e di merito, è oramai consolidata nel ritenere ammissibile la costituzione di parte civile delle associazioni Antiracket quali portatrici di un diritto soggettivo proprio in cui l’interesse diffuso si concretizza divenendo interesse alla tutela di un bene determinato, quale è nel caso di specie, la libertà di iniziativa economica privata.

Il diritto dell’associazione antiracket a intervenire nel processo penale attraverso la costituzione in giudizio, esercitando in tal senso l’azione civile ed assistendo la persona offesa, ad oggi resta un prodotto della più attenta ed analitica Giurisprudenza:
L’esperienza dell’associazionismo napoletano ha infatti posto in condizione Giudici di merito del Tribunale partenopeo e non solo, di contribuire notevolmente all’evoluzione del percorso giurisprudenziale in materia di costituzione di parte civile delle associazioni antiracket.
La Magistratura togata partenopea ha difatti riconosciuto l’esistenza di un danno economicamente apprezzabile motivando in tal senso decine di sentenze di cui un gran numero ad oggi definitive. Il percorso intrapreso dalle associazioni potrebbe in tal senso trovare terreno fertile al fine di un possibile ed auspicabile riconoscimento legislativo del danno e del diritto a costituirsi in giudizio iure proprio.
Il processo ha come fine ultimo quello di verificare l’attendibilità della ipotesi accusatoria sulla cui base l’ufficio del Pubblico Ministero ha ritenuto di esercitare l’azione penale. Questa verifica procede a prescindere dalla presenza o meno all’interno del processo in qualità di parte processuale del soggetto danneggiato dal reato. In tal senso la cd parte civile assume il ruolo di parte eventuale.
Questa espressione non deve però trarci in inganno. Difatti alla costituzione di parte civile all’interno del processo penale sono difatti collegati effetti rilevanti sia per la persona offesa che per la persona danneggiata dal reato. Sulla differenziazione delle due figure ci soffermeremo in seguito, mentre ora è di preliminare importanza comprendere quali siano gli effetti per la parte danneggiata dal reato relativi alla costituzione di parte civile nei confronti dell’autore del reato che ha leso un proprio diritto soggettivo.
Il codice penale prescrive difatti che chiunque abbia commesso un reato che abbia cagionato un danno è obbligato a risarcirlo. In tal senso la sede propria per la richiesta di risarcimento danno al fine di vedere lo stesso ristorato in termini patrimoniali e non patrimoniali è quella del processo civile. Con la citazione in giudizio del presunto responsabile si richiede al giudice civile di valutare attraverso una verifica processuale del fatto, la sussistenza di quel rapporto di causa effetto tra condotta dell’autore e danno cagionato all’offeso. Il tutto con una tempistica indiscutibilmente ben più ampia rispetto agli stretti tempi del processo penale.
Alla persona offesa danneggiata dal reato è infatti data la possibilità di scegliere la sede dalla stessa ritenuta più opportuna al fine di vedere accertato e quantizzato il danno subito. La costituzione di parte civile costituisce allora il mezzo attraverso cui esercitare l’azione civile all’interno del processo penale, garantendo al contempo alla parte offesa di assumere un ruolo attivo all’interno del processo penale, teso si all’accertamento della verità processuale ma contestualmente alla salvaguardia dei diritti propri della persona offesa.
Difatti la presenza della parte civile all’interno del processo penale ha ulteriori effetti positivi per l’offeso come la possibilità di essere assistito da un difensore qualora venga ascoltato nel corso del processo quale teste a carico, la possibilità di vedere in tempi maggiormente ristretti riconosciuta la esistenza di un danno, agire in seconda istanza in sede civile avendo già accertato in sede penale la esistenza di un danno e le responsabilità nella causazione dello stesso.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Partecipazione attiva della vittima

Partecipazione della vittima al processo e scelte endo-processuali dell’imputato

Il consolidamento di un simile approccio al processo ed alla denuncia nonché una effettiva assistenza della vittima del racket in sede procedimentale è foriero di rilevanti risvolti a livello processuale.
I partecipi di sodali camorristici, come già indicato in precedenza, sono spesso assistiti tecnicamente da ottimi professionisti, in grado di compiere le opportune valutazioni e scelte processuali nell’interesse dei loro assistiti.
Si rileva come, dall’esame della casistica, nei procedimenti in cui le vittime del racket possono usufruire di una difesa tecnica nonché dell’ausilio delle Associazioni Antiracket, rendendo in tal senso descrizioni più precise e ricevendo sin dal primo momento dell’arresto una assistenza legale e non solo a trecentosessanta gradi, i procedimenti sono caratterizzati dal sempre maggiore accesso, da parte degli imputati, a riti cd alternativi al dibattimento, quali ad esempio il rito abbreviato di cui agli artt. 438 s.s. c.p.p.
In conseguenza di tale scelta l’imputato sarà giudicato esclusivamente sulla base degli atti acquisiti sino a quel momento dall’Ufficio del Pubblico Ministero senza il necessario vaglio dibattimentale. Tale rito non prevede la deposizione in aula dell’imprenditore a fronte di uno sconto di pena, ma la possibilità per il Giudice di utilizzare ai fini della decisione la denuncia e gli eventuali riconoscimenti fotografici effettuati dall’imprenditore nell’immediatezza dei fatti.

Scelte difensive di questo tipo, in base alla nostra esperienza, sono quasi sempre motivate dalle aspettative che i difensori degli imputati hanno, ho non hanno, in riferimento all’espletamento dell’istruttoria dibattimentale. La eventuale previsione di una pressoché puntuale conferma da parte dell’imprenditore di quanto deposto in sede di denuncia e qualora la denuncia stessa non lasci margini di incertezza, soprattutto se adeguatamente supportata da ulteriori indagini espletate, farà optare per la maggior parte dei casi per il rito abbreviato.
Si comprende come una simile scelta difensiva, sulla scorta della precisione delle dichiarazioni rese e di una ottima operazione di polizia giudiziaria, comporti una notevole diminuzione per la parte offesa del ruolo che la stessa si troverà a rivestire all’interno della vicenda strettamente processuale. Al contempo è garantita una maggiore celerità del procedimento ed un minimo dispiego di energie da parte di tutti gli attori processuali.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Assistenza giudiziale alle vittime di estorsione

La necessità di una adeguata assistenza alla vittima di estorsione
Rilevanza penale della denuncia

Ventiquattro aprile duemilasette – aula dibattimento presso il Tribunale di Napoli – è in corso l’audizione di un imprenditore difeso e rappresentato da un avvocato antiracket la cui attività professionale è prestata prevalentemente in favore di soggetti vittime di reati quali usura, estorsione e concussione. Costituite parti civili accanto all’imprenditore e rappresentate dal medesimo legale il Coordinamento Napoletano delle Associazioni Antiracket e la FAI.
L’imprenditore ha avuto il coraggio di denunciare i suoi estorsori mettendo così a nudo oltre dieci anni di soprusi ed angherie che hanno portato la sua impresa sull’orlo del fallimento. Oggi i suoi estorsori sono presenti in aula ed ascoltano l’esame dell’imprenditore condotto dal Pubblico Ministero:

PM – sempre in quel periodo grossomodo, nel ’00, ’01 la sua azienda aveva ulteriori cantieri a via … e Piazza …?
DICH – Si.
PM – di che tipo di lavoro si trattava?
DICH – Fabbricati.
PM – lei anche per questi lavori ha denunciato di aver avuto richieste di denaro, vuole raccontare al Tribunale di che tipo di richieste si trattava e da parte di chi le ha ricevute?
DICH – La stessa cosa di sempre – non mi ero presentato a chi di dovere, non conoscevo nessuno, io stavo prendendo un gelato al bar cavallo a Piazza …… dove lavoravo venne uno alle spalle e disse: “adesso ti dovrei sparare nelle gambe”, “perché cosa ho fatto?”, perché non vi siete presentati a chi di dovere”, ma a chi mi devo presentare? Dove devo andare? Chi sono?qua vengono tanta gente che cercano qualcosa”. Dissero: “adesso va da quella persona che sta nel giardinetto a pochi metri, lui ti accompagna dove devi andare”, “ e mi portarono…”
PM – con quante persone lei si incontrò?
DICH – uno stava ai giardinetti ed uno stava più distante nelle macchine, “vieni con noi, ti portiamo noi” – “ma dove?” – “non ti preoccupare” – allora vengo con la mia macchina?” – “Si fai bene” – e sono andato a …, verso …, ho sostato la macchina e mi hanno fatto salire a casa in un palazzo…
PM – le dissero dove la stavano conducendo?
DICH – ho visto il palazzo
PM – loro le dissero dove la stavano portando?
DICH – Io camminavo dietro con la macchina e loro camminavano con la macchina avanti e un altro indietro. Mi portavano in un palazzo …
PM – ma lei non chiese dove stiamo andando?
DICH – loro mi dissero che mi portavano da chi dovevamo parlare per la situazione.
PM – chi era questa persona da cui dovevate andare a parlare?
DICH – quando sono entrato nel palazzo, ho visto una persona alta, snella con i capelli lunghi che si chiamava, lo chiamavano di soprannome … e poi dopo, domandando, mi disse che si chiamava …
PM – lei riconobbe in fotografia questa persona?
DICH – Si anche dai Carabinieri
PM – che cosa accadde durante quest’incontro?
DICH – “Accomodati, so che sei un bravo ragazzo…so che stai facendo un lavoro qua e là”
PM – a quale lavoro fece riferimento?
DICH – Via … e P.zza …, a … sempre. Devi pagare, mi avete fatto fare tutte queste cose, mi volete sparare nelle gambe, perché si usa così, uno deve lavorare, lui disse: DICH – Si, continuai i lavori e in una settimana portai ed in un’altra settimana portai altri sei milioni.
PM – Dove li portò?
DICH – A casa sua in via …
PM – sarebbe in grado di riconoscere l’imputato oggi?
DICH – Si è il primo con gli occhiali.
PM – Lei poi ha denunciato analoghi episodi, in relazione ad un cantiere sito in via …
DICH – Si.
PM – Vuole dire al Tribunale che cosa accadde?
DICH – Venne un certo …, che non era il suo nome…
PM – Come si chiamava?
DICH – Si chiamava …
PM – Lei lo riconobbe anche in foto?
DICH – Si. Sta qua nella gabbia.
PM – Vuole indicare quali delle persone presenti nella gabbia corrisponde al Signor …?
DICH – E’ il terzo, uno due e tre.
PM – che tipo di lavoro stava svolgendo?
DICH – sempre intonacatura e pitturazione del palazzo
PM – a quanto ammontavano questi lavori?
DICH – a duecento e dispari milioni omissis
PM – a quest’incontro con queste tre persone lei si recò da solo?
DICH – stavo con mio figlio, io gli dissi di non venire, ma lui è venuto
PM – cosa accadde in questa occasione?
DICH – mi minacciarono
PM – con quali modalità e con che parole la minacciarono?
DICH – che dovevo pagare il Pizzo, perché sempre siamo della zona, non vi siete presentati. Io dissi che non mi presentavo a nessuno perché non sapevo dove presentarmi, mi dissero: Ci devi dare i soldi” mi fecero una richiesta di più di 10 milioni ed io dissi che ne potevo dare al massimo 5, così siamo rimasti a cinque milioni che portai la settimana dopo in contanti…
PM – in tutte queste occasioni in cui incontrò queste persone, le fu mai prospettato nel caso in cui si fosse rifiutato di pagare?
DICH – e come si può dottore
PM – cosa poteva accadere a lei o alla azienda?
DICH – Si, a me mi rubavano nell’azienda…
PM – non le sto chiedendo se rubavano, le sto chiedendo se da parte di queste persone le fu prospettata qualcosa in relazione alla eventualità che lei omettesse di consegnare queste somme di denaro?
DICH – Io consegnavo, io stavo male, perché poi ci dovevamo riprendere da questo episodio, dai soldi che pagavamo, perché alla fine del mese non c’erano soldi ed andavamo in banca a prendere soldi in prestito …
PM – Nel corso di questi incontri le fu richiesto di sospendere i lavori?
DICH – Prima di dare i soldi si, si perdeva una giornata di cinque o sei operai, tre o quattro di la ed erano milioni che si perdevano … purtroppo gli operai non lavoravano, a volte anche il giorno dopo perché avevano paura
PM – lei successivamente li riconobbe in fotografia?
DICH – Si.
PM – Sarebbe in grado di riconoscerli anche oggi in quest’aula?
DICH – Eccolo qua, con la maglia rosa
PM– come si chiama?
DICH – Si chiama…
AVV. ANTIRACKET– avete documentato in qualche modo questi pagamenti?
DICH – si ce li abbiamo tutti scritti dentro un libro paga … perché erano pagamenti tutti richiesti in contanti da loro e l’amministratore della società li iscriveva tutti quanti sul libro paga; questo libro paga ce l’ha il tribunale perché l’abbiamo consegnato ai Carabinieri…
AVV.ANTIRACKET – perché avete denunciato?
DICH – Quando alla fine del mese non arrivano i soldi per pagare e le banche non ti danno i prestiti … io non ho denunciato solo queste persone qua, ho denunciato una serie di persone cattive, per un ammontare di 250 milioni un po’ alla volta, pensate in tanti anni, dieci milioni alla volta, cinque milioni, non potevo andare in ferie, non avevo la macchina, non si poteva aggiustare niente, non si poteva fare un regalo perché uscivano milioni come niente fosse …
AVV. ANTIRACKET – dopo aver denunciato siete stati assistiti dall’associazione antiracket?
DICH – Si. Mi hanno assistito
AVV.ANTIRACKET – dopo aver denunciato avete subito episodi di ritorsione o minacce
DICH. – No. Assolutamente,

Riflessioni: ecco cosa significa denunciare il racket ed assistere in giudizio le vittime.
La prima cosa che impressiona, alla lettura di queste semplici battute, è la lucidità e la determinazione dell’imprenditore, seppur decisamente oltre la soglia dei settanta anni: analitica descrizione dei fatti e dettagliata individuazione in aula degli autori dei singoli episodi delittuosi.
L’imprenditore della nostra storia, ha in tal modo contribuito in modo rilevante ad assicurare alla giustizia con conseguente condanna alle pene di legge previste per i reati di estorsione aggravata finalizzata ad agevolare l’associazione camorristica di appartenenza, oltre 20 imputati. Il tutto semplicemente attraverso la denuncia operata presso il Comando dei Carabinieri, ma soprattutto attraverso la conferma delle dichiarazioni rese nell’aula del Tribunale.
Lo stesso imprenditore oggi ha smesso di “mettersi a posto con i clan” e tramite la consulenza delle associazioni antiracket stesse ha avuto accesso ai benefici di cui alla legge n°44 del 1999 nonché richiesto al Fondo di rotazione per le vittime della mafia di cui alla L.512 del 1999 il pagamento del risarcimento cui i suoi estorsori sono stati condannati.
Il rito ordinario, quello il cui stralcio delle dichiarazioni è stato su riportato al fine di far comprendere cosa significa – denunciare il racket – e cosa significa – assistere una vittima del racket, si è concluso con la condanna di tutti gli imputati a complessivi 120 anni di carcere nonché al risarcimento del danno patito dalla persona offesa con contestuale liquidazione di una provvisionale. Lo stesso dicasi per le associazioni antiracket costituite che hanno visto riconosciuto il danno richiesto.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Il ruolo dell’avvocato antiracket

I poteri riconosciuti dal codice di procedura penale alla persona offesa dal reato, successivamente destinata a costituirsi parte civile, sono esercitabili dalla stessa a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale.
La persona offesa assume nel processo una indiscutibile posizione di supporto a quella dell’Ufficio del Pubblico Ministero, ad esempio in procedimenti scaturenti dalla propria denuncia; le facoltà concesse dalla legge vanno in tal senso esercitate essendo di fondamentale importanza una pronta ed attenta assistenza legale sin dal compimento dei primi atti di indagine.
Alla persona offesa viene infatti riconosciuta tutta una fascia di diritti e facoltà a partire dalla fase delle indagini preliminari, poteri di impulso alle indagini, diritto di essere informato sullo stato delle stesse, fino ad opporsi ad eventuali richieste di archiviazione e prima che l’Ufficio del Pubblico Ministero proceda a richiedere l’emissione di misure cautelari e la conseguente richiesta di rinvio a giudizio.
La vittima di usura, estorsione e reati della stessa indole, proprio per il ruolo che assume, deve essere rappresentata in tutte le sedi procedimentali e processuali da un avvocato. Per la particolare tipologia di assistenza di cui la vittima di reati di tal genere necessita, il ruolo difensivo deve essere affidato ad un legale dotato di specifiche competenze in materia.
Il cd. avvocato antiracket, iscritto all’albo ordinario degli avvocati, è chiamato ad esercitare un duplice ruolo: tecnico-giuridico in senso stretto e di contestuale supporto psicologico diventando per vittima del reato il referente di ogni singola istanza, dubbio e paura. Il tutto teso a garantire la genuinità del pilastro accusatorio dibattimentale.
Difatti le dichiarazioni rese dall’imprenditore vittima di richieste estorsive assurgono spesso a prova principe ai fini della condanna degli imputati di concerto con riconoscimenti fotografici compiuti dallo stesso in fase di indagine, in aula o ancor più da un eventuale ricognizione personale disposta dal Tribunale stesso. Ulteriori attività investigative come intercettazioni telefoniche o ambientali, arresto a seguito di operazioni concordate a seguito della denuncia, seppur rilevanti ai fini della condanna spesso fanno da elemento accessorio alle insostituibili dichiarazioni della vittima che, de visu ha subito l’estorsione.
Solo una adeguata assistenza difensiva garantirà la genuinità e trasparenza del vaglio dibattimentale, avente ad oggetto fatti spesso risalenti nel tempo e darà modo alla vittima di affrontare l’intera vicenda con cognizione di causa, conscio dei passi che di volta in volta si accingerà a compiere.
In questo si sostanzia il ruolo fondamentale delle associazioni antiracket e della figura dell’avvocato antiracket le cui sinergie mettono in condizione la vittima di affrontare il percorso processuale con estrema lucidità, garantendo al contempo una deposizione dibattimentale scevra “vuoti di memoria”, spesso dovuti al tempo trascorso e libera da condizionamenti ambientali.
Gli imputati di tali reati sono infatti nella maggior parte dei casi, assistiti da interi collegi difensivi, per usare una espressione forse un po’ colorita “al soldo” degli stessi clan, e che, una volta giunti al dibattimento avranno come unico obbiettivo quello di far emergere nel racconto dell’imprenditore contraddizioni e lacune di memoria tesi a minarne la credibilità, sulla cui solidità spesso si fonda l’intero impianto accusatorio del pubblico ministero.
La testimonianza così resa dalla persona offesa ha quasi sempre ad oggetto fatti risalenti nel tempo, spesso articolati e relativi a più imputati nel medesimo procedimento, si da essere facilmente sottoposti al contro esame dei collegi difensivi nel rispetto delle garanzie processuali degli imputati stessi, che se non adeguatamente chiarite, potrebbero porre in discussione la prova principe dell’intero procedimento penale, le credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
Questa atipica figura di legale, ha scelto così in via definitiva di patrocinare esclusivamente vittime dei reati di tipo mafioso conseguentemente maturando sul campo una concreta incompatibilità alla assistenza di imputati in reati connessi e della medesima tipologia.
Tornando infatti alla deposizione resa dal nostro imprenditore tipo, narrata in via esemplificativa, è di facile comprensione capire quanta rilevanza assuma nella fase pre-dibattimentale, prima di essere cioè ascoltato dal pubblico ministero, il contatto necessario tra imprenditore ed avvocato antiracket.

Se la testimonianza in Tribunale in alcuni casi rappresenta così il cuore del processo, la denuncia della vittima del racket è spesso il presupposto dell’intera azione penale, cui spetta dar seguito all’ufficio del Pubblico Ministero attraverso il compimento di ulteriori atti di indagine. Tanto più complesse e dettagliate sono le ulteriori indagini a completamento, integrazione nonché riscontro della denuncia resa dall’imprenditore, tanto minore sarà lo sforzo in sede processuale richiesto alla vittima del reato ai fini di un sereno accertamento dei fatti.
Ecco come l’avvocato antiracket, di concerto con l’associazione antiracket, costituisce spesso l’interfaccia tra la vittima del reato e la Procura della Repubblica; è colui, che in veste di privato e di uomo prima, in veste di tecnico del diritto poi, presta assistenza ad operatori economici spesso angosciati e stremati dalle umiliazioni subite sino al momento della denuncia.
Gli incontri tra l’imprenditore ed il proprio avvocato sono così finalizzati a rasserenare lo stesso nell’ottica del futuro esame dibattimentale al contempo ripercorrendo, carte alla mano, l’intera vicenda da lui vissuta rendendolo edotto delle modalità con sui l’esame stesso sarà condotto, in considerazione del fatto che nella maggior parte dei casi la parte offesa stessa non ha mai varcato la soglia dell’aula di Giustizia.
Il Pubblico Ministero potrà in tal modo procedere all’esame di una parte privata, la persona offesa costituita parte civile, addivenendo nella maggior parte dei casi ad una testimonianza lineare e coerente.
L’avvocato antiracket opera pertanto dietro le quinte e spesso al di fuori del “teatrino” processuale creando i presupposti logici e di fatto tesi ad una deposizione logica e coerente ai fatti come realmente accaduti. La deposizione dell’imprenditore in aula è certamente uno dei momenti più critici, ma al contempo liberatori, dell’intera vicenda processuale.
A questo si deve aggiungere come non siano mancati, perché processualmente provati, episodi in cui le vittime stesse siano state oggetto di atti di intimidazione al fine di addivenire alla ritrattazione di quanto esposto in sede di denuncia.
Ecco il ruolo fondamentale dell’avvocato antiracket, tecnico del diritto e sensibile uditore delle paure, delle ansie e delle istanze di chi ha deciso di opporsi alla violenza dei clan, pronto in tal senso ad interfacciarsi direttamente con l’Ufficio della procura procedente per segnalare, in considerazione della tipologia dei reati per cui si procede, eventuali atti “intimidatori” posti in essere in danno della persona offesa nella fase antecedente l’escussione dibattimentale.
Questo a volte complesso sistema di relazioni tra Uffici della Procura, dirigenti delle Associazioni Antiracket e avvocato antiracket, mira così a garantire la persona offesa da qualsivoglia pressione psicologica o “criminale” che dovesse intervenire dalla fase della denuncia a quella della definizione dell’intero procedimento penale.
Il ruolo dell’avvocato antiracket è in tal senso supportato dal lavoro costante dei dirigenti delle Associazioni Antiracket, referenti anche politici ma ancor prima uomini capaci di ingenerare nella persona offesa la sicurezza che qualsiasi atto intimidatorio, qualsiasi segnale proveniente da chi si è reso reo di simili misfatti, non potrà che aggravare la propria posizione processuale, stante il filo diretto oramai esistente tra vittima, avvocato, associazione e Procura della Repubblica.
Questo è il chiaro messaggio diretto ad estorsori e sodali camorristici: l’imprenditore che denuncia non è più solo – è in una rete – che lo supporta nell’arco dell’intero procedimento garantendone così affidabilità e sicurezza.
L’avvocato antiracket da canto suo è un libero professionista che ha scelto, scelto di stare dalla parte di coloro che hanno subito la violenza e l’intimidazione del potere mafioso e camorristico. Imprenditori, commercianti, persone che da anni vivono e convivono in realtà come quelle di Napoli e provincia, dove la camorra non è un concetto astratto e lontano, ma un modo di pensare, di essere, i cui retaggi sottoculturali sono difficili da sconfiggere e dove la linea di confine tra il subire intimidazioni e prestare acquiescenza perché conniventi è molto sottile.
Questa scelta di parte non è scevra da problematiche. La preparazione tecnica del penalista garantisce una adeguata assistenza alla vittima del racket sia in fase di indagine che processuale. Al contempo la cultura stessa del penalista non consentirebbe di distinguere tra persone offese e loro aguzzini, in omaggio al principio del diritto inviolabile di difesa garantito costituzionalmente.

Nel prestare assistenza alle vittime del racket la scelta è d’obbligo, non esistono vie di mezzo, l’avvocato antiracket oltre a rappresentare la persona offesa e se stesso è parte di un movimento, parte di una cultura antagonista all’illegalità in cui le mafie operano ed in questo movimento ha scelto di operare ponendo al suo servizio la propria professionalità ed esperienza.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

La vittima del reato ed il mero danneggiato

Il codice di procedura penale, pur prevedendo una dettagliata normativa in riferimento ai poteri attribuiti alla persona offesa dal reato, non ne offre una definizione. La stessa può comunque essere identificata con il soggetto che subisce il danno al bene giuridico protetto dalla norma penale a causa della aggressione posta in essere dall’autore del reato. Nel caso di nostra spettanza colui che materialmente subisce l’estorsione con conseguente danno patrimoniale e non patrimoniale economicamente valutabile.
Diverso è il concetto di persona danneggiata dal reato. Lo stesso coincide con chiunque debba sopportare un pregiudizio di natura patrimoniale o non patrimoniale, ma sempre economicamente apprezzabile, in ragione del fatto reato altrui.
E’ stato così creato un sistema in cui convivono la persona offesa ed il danneggiato da reato con diversi poteri e diritti in considerazione anche della fase procedimentale o processuale in cui ci si trova. Il mero danneggiato dal reato (per intenderci l’associazione antiracket o il Comune) avrà diritto ad agire e diverrà formalmente parte del processo solo a seguito della costituzione in giudizio.
La persona offesa al contrario, diverrà anch’essa parte processuale solo con la costituzione in giudizio, ma alla stessa sono attribuite tutta una serie di diritti e facoltà durante la fase delle indagini preliminari fino alla notifica del decreto di fissazione dell’udienza preliminare – avviso cui il danneggiato dal reato non ha diritto.
In tal senso il diritto alla costituzione di parte civile all’interno del processo penale è riconosciuto ai sensi dell’art. 74 c.p.p. al soggetto danneggiato dal reato in tal modo ricomprendendo in tale categoria sia la persona offesa dal reato in senso tecnico che il danneggiato in senso lato. Certamente il codice, pur riconoscendo ad entrambi la facoltà di costituirsi parte civile ne attua una diversa regolamentazione dei poteri procedimentali essendo nel soggetto persona offesa dal reato indiscutibilmente presente l’interesse del privato alla persecuzione penale del reo.
Basti pensare all’obbligo sussistente in capo all’Ufficio del Pubblico Ministero ai sensi del combinato disposto dell’art 369 c.p.p., che prevede la notifica della informazione di garanzia anche alla persona offesa dal reato e dell’art. 417 lett. a c.p.p. che prevede come requisito della richiesta di rinvio a giudizio l’indicazione delle generalità della persona offesa dal reato qualora ne sia possibile l’identificazione. Poteri non riconosciuti al mero danneggiato dal reato essendo lo stesso non definibile aprioristicamente in considerazione delle diverse tipologie di reati.
E’ proprio infatti in considerazione dei reati oggetto del presente lavoro che assume una particolare rilevanza questa distinzione. Il reato di estorsione, commesso ai danni di un imprenditore e con le finalità di agevolare una associazione a delinquere di stampo camorristico, vedrà quale persona offesa in senso tecnico l’imprenditore, il commerciante che è materialmente considerata la vittima del reato. Contestualmente creerà un danno alle attività commerciali ed all’immagine della città facendo sorgere un diritto al risarcimento del danno agli enti territoriali Comune, Provincia e Regione nonché alle Associazioni Antiracket, enti privati seppur dotati di un riconoscimento pubblico attraverso l’avallo prefettizio.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Le richieste di risarcimento danni

Le richieste di risarcimento danni – Natura meramente risarcitoria e non lucrativa delle richieste economiche in sede processuale

Le attività poste in essere dalle associazioni antiracket, oggetto del presente lavoro, il loro continuo rigenerarsi attraverso processi di aggregazione tesi a far si che sempre più imprenditori in sempre maggiori realtà territoriali trovino la forza di reagire di concerto con Istituzioni locali ed Autorità Giudiziaria, richiedono necessariamente per i referenti delle associazioni stesse la capacità di trasmettere all’utente sicurezza ed affidabilità.
A queste imprescindibili caratteristiche dell’operatore antiracket devono necessariamente aggiungersi la capacità tecniche di affrontare le problematiche in primis socio-psicologiche e di seguito tecnico-giuridiche del caso specifico, nonché un corretto e funzionale rapporto delle stesse con Istituzioni ed Autorità Giudiziaria procedente.
Si comprende come tutto questo, nonché le necessarie attività di formazione ed informazione proprie e tipiche delle associazioni, richiedano necessariamente l’impiego di risorse, umane ed economiche. Sedi operative, consulenze psicologiche, legali nonché tutto quanto attiene alla continua attività di formazione ed informazione alla legalità, da esercitare in maniera continuativa e costante sul territorio. Contrastare la sottocultura dell’illegalità in cui la camorra prolifera investendo milioni di euro, richiede a sua volta l’impiego di capitali.
Costi. Costi che sono tanto maggiori quanto maggiore è l’azione e l’intervento richiesto all’associazione sul territorio ed in riferimento alla contestuale pregnanza di sodali camorristici più o meno radicati. La loro esistenza ed operatività viene indiscutibilmente ad incidere sulla quantità di risorse economiche ed umane di cui avrà bisogno l’associazione antiracket al fine di operare.
Il danno arrecato all’associazione, come su ampiamente analizzato e riconosciuto, si sostanzia nella frustrazione stessa dello scopo sociale assunto dagli associati nonché nell’arretramento alla lotta al racket delle estorsioni e dell’usura oggetto della continua campagna di informazione e formazione alla legalità che l’associazione pone in essere sul territorio.
Le richieste di risarcimento danni vanno pertanto in questo senso, l’associazione che di volta in volta si costituisce parte civile, contestualmente ad affiancare la vittima che autonomamente agisce contro i propri aguzzini, richiede al giudice in sede penale e poi in sede civile la quantizzazione di una danno economicamente valutabile che, se soluto, porrà in condizione l’associazione stessa di aumentare il proprio raggio di azione ed incidenza sul territorio.
L’idea è semplice. Natura meramente risarcitoria del danno e richiesta finalizzata alla possibilità di reperire, in via solidale tra i partecipi condannati del sodale camorristico, i fondi necessari ad operare sul territorio.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello e dell’ avv. Alessandro Motta

Esperienza di avanguardia

Una esperienza d’avanguardia
L’associazionismo antiracket sorto in Sicilia oltre venti anni fa, è nato e sperimentato in Campania solo da pochi anni, nuovi meccanismi, l’assistenza alle vittime di estorsione ed usura, una sempre farraginosa macchina burocratica che dovrebbe in tempo reale assicurare i risarcimenti alle vittime della mafia, fanno dell’associazionismo antiracket e del suo modo di opporsi fuori e dentro al processo una esperienza indiscutibilmente di avanguardia ed in aperto contrasto a consorterie criminali in possesso di enormi patrimoni.
Al contrario l’esperienza dell’associazionismo antiracket è ad oggi spesso legata a labili finanziamenti regionali, provinciali o comunali, che mettono in condizione gli operatori del settore di lavorare sempre in uno stato di continua precarietà in bilico tra militanza e volontariato, di certo al di sotto delle potenzialità che il fenomeno potrebbe esprimere e manifestare.
Decidere di assistere una vittima del racket, implica la necessità di possedere sul campo un forte consenso popolare. Il consenso si ottiene attraverso la creazioni di sedi, attraverso l’assunzione di personale, attraverso una continua campagna in favore della legalità, garantendo al contempo la sicurezza personale di vittime ed operatori. Questo richiede risorse economiche stabili. Due sono le alternative: la istituzionalizzazione delle associazioni antiracket o la possibilità per le stesse di ottenere con immediatezza dallo stato i risarcimenti riconosciuti dalle sentenze dei giudici di merito.
Tra mille difficoltà date dalla precarietà con cui sono spesso costrette a sopravvivere ad oggi ed in riferimento alla sola regione Campania questi sono i dati salienti della contrasto ad attività di estorsione ed usura – si tiene a precisare come i dati indicati siano relativi ai procedimenti di maggiore rilevanza ed a decorrere dal 01.01.05 – da consultare nella sezione I processi e la giurisprudenza

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Le istituzioni e la società civile

Un sistema così compiutamente organizzato e strutturato come l’associazionismo antiracket, le cui basi sono indiscutibilmente state gettate nel corso degli ultimi dieci anni, deve trovare la giusta strada per far risvegliare le coscienze civili oramai sopite, unica strada per una reale rinascita delle nostre terre.
Il sistema legislativo, seppur ancora non perfettamente oliato esiste e necessità di un sempre più forte coordinamento a livello istituzionale essendo strutturato a partire dalle leggi 108/96 e 44/99 istitutive dei fondi di solidarietà ed assistenza alle vittime del racket e dell’usura, cui fanno seguito la L.512 del 1999 e la L.575 del 1965 in tema vittime della mafia e confisca dei beni e misure di prevenzione a carico di mafiosi o presunti tali.
E’ proprio in riferimento alla cit. L.512 del 1999, istitutiva del Comitato di Solidarietà delle Vittime dei reati di tipo mafioso, che rileva quale segno di alta civiltà giuridica, l’impegno che lo Stato assume, in proprio, di risarcire materialmente le vittime di tali reati riservandosi la possibilità di agire sul patrimonio mafioso per la reintegra di quanto pagato, magari incentivando l’uso dei beni confiscati. La vittima del reato non è così posta assurda condizione di dover richiedere il pagamento di quanto liquidato dal giudice con la sentenza di condanna agli esponenti dei sodali camorristici contro cui si è già faticosamente opposta nel corso del procedimento. Punto dolente del su citato meccanismo si sostanzia ad oggi esclusivamente di una eccessiva burocratizzazione dello stesso in questa sede auspicandosene una maggiore celerità nella valutazione e liquidazione delle istanze.
In conclusione l’auspicio è che attraverso un sempre maggior coordinamento tra Istituzioni e Società civile, nonché attraverso una revisione in senso critico e migliorativo dei meccanismi legislativi tesi alla gestione dei beni oggetto di confisca alle mafie ed al risarcimento economico e non solo delle vittime stesse, cresca il numero di imprenditori e comuni cittadini che decidano di denunciare ogni forma di intimidazione ed oppressione esercitata dalla mafia sul territorio poiché questa vive del silenzio e nel silenzio della costante intimidazione.
E’ così che attraverso la denuncia e la rete di assistenza creata da associazioni antiracket operanti sul territorio e società civile, forti della costante presenza dello Stato, interi sodali camorristici hanno visto confiscati i propri beni provento di reato. Reimmessi nel circuito legale potranno essere reimpiegati per contrastare realmente la criminalità organizzata attraverso attività di prevenzione e repressione nonché garantire in tempo reale un totale e doveroso risarcimento del danno alle vittime della mafia.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Il progetto Gestio

Nell’ambito delle attività poste in essere nel corso degli ultimi dieci anni dai professionisti aderenti alla rete di Rete Legale Etica, si presenta una proposta di impostazione operativa in un settore strettamente connesso alle azioni poste in essere dalla Rete a sostegno di cittadini, imprenditori e più in generale della libertà di iniziativa economica privata dal crimine organizzato.
La rete non vuole essere un collettore, una lobby, un canale di intermediazione clientelare ma semplicemente contribuire a creare e gestire dei parametri professionali, ma soprattutto etici e morali, cui uniformare la condotta dei professionisti aderenti nell’espletamento delle funzioni caratterizzanti gli incarichi professionali in tema di gestione di beni sottratti al crimine organizzato, incarichi che vengono acquisiti a titolo personale senza alcuna corresponsione di commissioni o compensi da parte della Rete.
Rete Legale Etica allora, attraverso la creazione di meccanismi di controllo e di adesione del professionista, si pone come garante della condotta etica, morale e strettamente operativa dello stesso restando insindacabili le condizioni poste a fondamento del permanere dei requisiti del professionista.
Rete Legale Etica nel corso degli ultimi dieci anni ha contribuito attivamente attraverso i suoi professionisti alla nascita ed allo sviluppo dell’intero movimento antiracket ed antiusura partenopeo assistendo decine di vittime ed enti in ambito giudiziario, stipulando numerosi protocolli con enti di prestigio come ad esempio il Comune di Napoli, sostenendo campagne attraverso il proprio portale sulle tematiche dell’educazione alimentare in campo minorile e contrasto alle agromafie senza mai venir meno al rispetto dei suoi principi e regole fondanti e del Codice Etico della rete
La tematica su cui la Rete si confronta oggi è quella della gestione dei beni sottratti alla criminalità organizzata e lo fa attraverso il suo Progetto “Gestio” attraverso cui la rete si pone come anello di congiunzione, tra il caos normativo e prassi giudiziali, ed il suo pool di professionisti, avvocati, commercialisti e tecnici al fine di consentire una gestione dei beni sottratti al crimine organizzato non solo corretta sul piano procedurale ma eticamente orientata alla salvaguardia del bene ed alla rottura da schemi e logiche clientelari che ne hanno in parte viziato il percorso di riconversione del bene stesso dal circuito illegale alla restituzione alla collettività e per la collettività.
Di sotto una prooposta di impostazione operativa con le potenzialità che la rete potrebbe porre in campo a sostegno del progetto “Gestio”: professionisti, studi professionali di riferimento aderenti, curricula professionali e sedi operative.

a cura dell’ avv. Motta e dell’ avv. Nello

I reati agroalimentari

Da un punto di vista statistico, circa un terzo dei reati contro i consumatori si consumano nell’ambito del commercio di prodotti agroalimentari.
La distribuzione geografica della relativa casistica sull’intero territorio nazionale appare tutt’altro che omogenea, essendo concentrata in alcune aree, precisamente quelle con una storia imprenditoriale in questo settore merceologico oppure quelle in cui la spesa alimentare incide sul reddito familiare in misura percentualmente più rilevante.
Esemplare, in tal senso, è il caso del circondario del Tribunale di Nocera Inferiore (SA), nel quale si manifestano entrambe le sintomatologie sopra citate, a cominciare dalla storica presenza delle aziende della filiera di quello che un tempo veniva definito “oro rosso” (il pomodoro).
Oltre al potenziale intreccio eziologico, i reati in materia agroalimentare presentano un costante intreccio tra due diritti collettivi violati:
1. quello alla salute, che è un diritto costituzionale (art. 32);
2. quello alla sicurezza e qualità dei prodotti, che è un diritto commerciale (art. 2, comma 2°, codice del consumo).
A ben vedere, sono danneggiati anche altri diritti commerciali collettivi, riconosciuti dal citato art. 2, comma 2°, tra i quali quelli all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà e alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali.
La circostanza che tale tipologia di reati leda un diritto addirittura costituzionale (sostanzialmente fuso nelle fattispecie con un diritto di rango inferiore), determina una importante conseguenza pratica: i reati che si consumano nell’ambito del commercio di prodotti agroalimentari sono i reati più dannosi per i consumatori.
La casistica sui reati in materia di prodotti agroalimentari, oltre ad essere quantitativamente consistente, è anche qualitativamente eterogenea, investendo un’ampia classe di reati, a partire proprio da quello che abbiamo citato all’inizio del nostro viaggio nel mondo dei reati contro i consumatori: la vendita di alimenti in cattivo stato di conservazione igienico-sanitario (Legge 30 aprile 1962, n. 283, articoli 5 e 6).
Il signor P.V., per esempio, commise tale reato, perché esercitava la professione di panificatore senza alcuna autorizzazione e, per giunta, utilizzando legna rivestita di vernice come combustibile per il suo forno; il Tribunale di Napoli, Sezione I Penale, G.M. dottor Di Marzio, con la sentenza del 7 gennaio 2010, lo ha condannato (anche) a risarcire i danni all’associazione di consumatori X, costituitasi parte civile.
Possiamo dunque affermare che quel reato, previsto e punito da una legge del 1962, soltanto dal 2010 è stato riconosciuto come reato contro i consumatori.
Peraltro, statisticamente nella maggior parte dei casi quel reato viene punito (non attraverso un processo, ma) attraverso un decreto penale di condanna (art. 459 e ss. c.p.p.), nel quale, com’è noto, non esiste condanna civile.
Vediamo più precisamente cosa accade in pratica, proprio partendo dall’esempio citato.
Come tutti i panificatori, autorizzati o abusivi, il signor P.V. lavorava di notte, ma, a differenza di quelli in regola con la legge, il suo forno produceva un tale inquinamento, acustico e ambientale (quest’ultimo tramite il camino), da aver provocato la reazione di alcuni cittadini, residenti nella zona, i quali avevano allertato i Carabinieri; quest’ultimi, intervenuti attraverso il reparto NAS, avevano denunciato P.V. e, successivamente, assunto la veste di testimoni nel processo.
In questo caso, la notizia di reato è stata la denuncia dei Carabinieri, ma esistono anche altre fonti che denunciano – più o meno quotidianamente – violazioni della Legge 283/62: la Polizia municipale (o comunque locale) e gli ispettori delle Aziende Sanitarie Locali.
Una volta registrate nelle Procure, queste notizie di reato possono imboccare due strade alternative: il decreto penale di condanna oppure la citazione diretta (art. 555 c.p.p.).
Si determina, così, una situazione paradossale, perché lo stesso reato nel primo caso non può mai essere considerato un reato contro i consumatori, mentre nel secondo caso lo può diventare, ma solo a condizione che nel processo si costituisca parte civile un’associazione di consumatori.
Peraltro, una parte della giurisprudenza considera quello un reato di pericolo e non un reato di danno, come se il sequestro fosse effettuato all’atto dell’inaugurazione dell’esercizio commerciale e non, come avviene effettivamente e almeno di regola, dopo che il commerciante ha già provveduto a vendere prodotti in cattivo stato di conservazione a ignari consumatori, nei confronti dei quali il danno emergerà dopo l’assunzione del prodotto (consideriamola, questa, una presunzione iuris et de iure) .
Come che sia, sottraendo la “tara”, cioè calcolando i soli casi in cui vi sia stata citazione diretta, s’impongono due considerazioni:
1. da un punto di vista quantitativo, questi casi sono comunque numerosi;
2. da un punto di vista qualitativo, nell’ambito della categoria dei reati in materia di commercio di prodotti agroalimentari, questi processi non sono quelli più significativi.
I processi più significativi, infatti, possono essere classificati in due categorie:
1. quelli sulla “sicurezza alimentare” (tra i quali rientrano anche i reati previsti e puniti dalla Legge 283/62), nei quali sia contestata l’associazione a delinquere (reato che non viene mai contestato con riferimento alla legge 283/62, trattandosi di violazioni commesse dalle singole persone denunciate);
2. quelli sulla “agropirateria” (italian sounding).
Nell’ambito della prima sotto-categoria, vengono in considerazione, innanzitutto e per esempio, i due maxi-processi sulla “carne infetta”.
Tra il mese di marzo del 2001 e il mese di gennaio del 2003 , i NAS dei Carabinieri, anche su delega del Ministero della Salute, condussero una vasta indagine, denominata Operazione Meat Guarantor (“Il garante della carne”) , nota all’opinione pubblica non soltanto attraverso la stampa quotidiana ma anche attraverso la letteratura .
L’indagine venne divisa in due tronconi, di competenza – rispettivamente – delle Procure di Nola (NA) e Nocera Inferiore (SA) , sfociando poi in due distinti processi a carico complessivamente di 117 imputati (73 a Nola e 44 a Nocera Inferiore), tra allevatori, macellai e medici veterinari pubblici, molti dei quali settentrionali .
Pur non essendo questa la sede per illustrare dettagliatamente o anche solo riassumere i numerosi capi d’imputazione, ci limitiamo a elencare i reati contestati agli imputati: articoli 416, commi 1°, 2° e 5°, associazione a delinquere finalizzata a commettere i reati di cui agli articoli 314, 323, 326, 328, 334, 348, 349, 378, 440, 444, 476, 479, 482, 483, 484, 485, 500, 515, 516, 648 e 648 bis, c.p.
Ciascuno dei reati testé elencati, può essere considerato un reato contro i consumatori e, nelle fattispecie, tutti questi reati sono stati considerati tali dai Tribunali di Nola e Nocera Inferiore, a seguito della costituzione di parte civile di un’associazione di consumatori.
Se per alcuni di questi reati l’inquadramento come reati contro i consumatori appare facilmente comprensibile o quantomeno intuibile (ci riferiamo, evidentemente, agli articoli 440 , 444, 500, 515 e 516 c.p.), per altri reati l’inquadramento può apparire sorprendente o, addirittura, eccentrico.
Pensiamo, ad esempio, al reato di “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici” (art. 479 c.p.), contestato a molti imputati nei due processi citati, i quali, nella loro veste di veterinari dipendenti di Aziende Sanitarie Locali (dunque pubblici ufficiali), nell’esercizio delle loro funzioni ispettive avevano falsificato (questa era l’accusa) la documentazione accompagnatoria dei bovini nella parte relativa alle attestazioni sanitarie, attestando, in pratica, che capi di bestiame destinati alla macellazione (dunque al consumo umano) erano sani, quando, in realtà, erano malati.
Trattasi – certo – di reato contro la fede pubblica, ma quest’ultima non è un concetto astratto, una sorta di Moloch da intendersi esclusivamente come sinonimo di Stato.
Quel reato, commesso da quei soggetti attivi e con quelle modalità, certamente si concretizza in un tradimento rispetto al datore di lavoro, ma quest’ultimo non è il principale soggetto danneggiato, perché il danno, alla salute e commerciale, colpisce proprio e principalmente i consumatori (di carne bovina).
In definitiva, quello è un reato contro i consumatori.
Naturalmente, questi due processi sulla carne infetta non sono stati gli unici processi penali relativi ad associazioni a delinquere finalizzate a commettere reati in danno della sicurezza alimentare e, in definitiva, in danno dei consumatori.
Tra gli altri processi, citiamo, ad esempio, quello del burro adulterato (Tribunale di Nocera Inferiore), quello dell’olio d’oliva adulterato (perché venduto come extravergine ma, in realtà, ottenuto con oli di semi: Tribunale di Vallo della Lucania) e quello dell’importazione dalla Spagna di suini malati destinati alla macellazione per il consumo umano (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere).
Un caso assimilabile a quelli appena citati, benché non sia stata contestata ai numerosi imputati (29) l’associazione a delinquere ma soltanto il commercio di sostanze alimentari nocive (art. 444 c.p.), peraltro in forma concorrente (art. 110 c.p.), è il processo dei “cozzicari”: pescatori e pescivendoli, i quali, rispettivamente, pescavano (nelle inquinate acque marine antistanti il porto di Torre Annunziata) e “detenevano per il commercio ovvero distribuivano per il consumo sostanze destinate all’alimentazione, nelle specie mitili di vario genere (ostriche, casolare, vongole, tartufi ed in particolare cozze)” non stabulati, cioè non depurati “e così pericolosi per la salute pubblica”.
Il Tribunale di Nola, G.M. Dott.ssa Bilosi,con la sentenza 13 dicembre 2005, n. 1775, confermata da Corte d’Appello di Napoli, Sezione VII, 7 aprile 2008, n. 2853, ha affrontato il caso di cinque tedeschi, tra componenti del consiglio di amministrazione di una società e dirigenti della stessa, che avevano venduto a un caseificio di San Giuseppe Vesuviano (NA) una partita di latte contenente dosi eccessive di furosina, tali da determinare un effetto di “stracchinamento”: in pratica, il fiordilatte prodotto da quel caseificio con quel latte, una volta venduto a varie pizzerie si trasformava in granuli di ricotta non commestibili.
Questo caso di commercio di latte non genuino come genuino (articolo 516 c.p.), merita una citazione a parte, non soltanto perché agli imputati era stata contestata anche la truffa (tedeschi che truffano napoletani, in barba ai luoghi comuni), ma perché l’associazione di consumatori X era intervenuta ad adiuvandum rispetto ai querelanti (i titolari del caseificio), previo consenso scritto di quelle parti civili nel quale si dichiarava, come poi è stato confermato dalle emergenze dibattimentali, che i consumatori (clienti delle pizzerie, a loro volta clienti del caseificio) erano stati danneggiati dalle condotte degli imputati, quantomeno limitatamente all’art. 516 c.p.
Per quanto riguarda, invece, l’agropirateria, il primo riferimento normativo è il Regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio dell’Unione Europea, emanato il 20 marzo del 2006 e pubblicato sulla GUCE del 31 marzo 2006, “relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari” (IGP e DOP), il cui articolo 13 specifica le finalità di tutela dei prodotti agricoli e alimentari (sui quali si veda anche il contestuale Regolamento n. 509).
Il commercio di aliud pro alio, punito in forma generale dagli artt. 515, 517 e 517 bis c.p., nel settore alimentare è punito in forma specifica dall’art. 517 quater c.p., introdotto dalla Legge 23 luglio 2009, n. 99, art. 15, comma 1, lett. e), proprio per proteggere quei prodotti alimentari – molto numerosi in Italia – garantiti ai consumatori con IGP (indicazioni geografiche protette) e DOP (denominazioni d’origine protette).
La casistica in materia è piuttosto significativa, soprattutto nella fase di transizione dalla tutela generale a quella specifica.
Ad esempio, possiamo citare il caso del “Provolone del Monaco”, un formaggio tipico della Penisola sorrentina, che gode del riconoscimento di denominazione di origine protetta (DOP), giusto Decreto di Protezione Transitoria dell’11/7/2005 e con marchio registrato all’Ufficio Italiano Brevetti.
Il 27 giugno del 2008, dunque prima dell’entrata in vigore dell’art. 517 quater c.p., in un supermercato di Napoli personale del Corpo Forestale dello Stato sequestrò un certo quantitativo di provolone “generico” venduto come Provolone del Monaco, denunciando un commerciante.
Nel successivo processo, il Tribunale di Napoli, Prima Sezione Penale, G.M. dottor Lomonte, dopo aver ammesso la costituzione di parte civile dell’associazione di consumatori Y, così sentenziò: “L’ipotesi criminosa in contestazione si caratterizza per essere un reato di pericolo ad incertam personam che si consuma allorché vengano messi in circolazione prodotti che traggano in inganno il consumatore. L’interesse tutelato, secondo il costante insegnamento della Corte di Cassazione, è sia l’ordine economico che la lealtà dei rapporti commerciali (cfr. Cass. 7 agosto 1996, Pagano, e ss. conformi)” (sentenza 10 maggio 2011, n. 6936, depositata il 31 maggio).
I reati contestati erano gli articoli 517 e 517 bis c.p.; se il sequestro fosse stato effettuato dopo l’entrata in vigore dell’art. 517 quater, sarebbe stato contestato proprio questo reato, che – invece – è contestato nell’indagine relativa al sequestro nel porto di Salerno di 385 tonnellate di falso pomodoro San Marzano.

a cura dell’ avv. Agostino La Rana

Aspetti tecnici e legislativi delle frodi alimentari

La frode è intesa come condotta illecita dettata da intenzione dolosa e tale da creare danno ad altri. Nel settore alimentare sono considerate condotte illecite quelle che ledono i diritti legali e commerciali (contrattuali/patrimoniali) del consumatore.
Il reato di frode è stato inserito nel D.Lgs 231/2001, insieme ad altri reati di natura industriale, tra i presupposti atti a determinare la concorrente responsabilità amministrativa dipendente dal reato, della persona giuridica cioè della società/azienda che accoglie l’agente del reato stesso.
Quando si parla di frodi alimentari si fa riferimento alla produzione, trasformazione, distribuzione e quindi al commercio di alimenti non conformi alla normativa vigente. Le frodi alimentari si dividono in due tipologie:
FRODI SANITARIE che consistono nel ledere i diritti legali del consumatore e quindi nel rendere nocive le sostanze alimentari, attentando e ledendo la salute del consumatore (art.32 Costituzione – Tutela della salute pubblica): Possono essere commesse da ”chiunque detiene per il commercio o pone in commercio o distribuisce per il consumo,acque,sostanze o cose da altri avvelenate,adulterate o contraffatte in modo pericoloso per la salute pubblica”.
FRODI COMMERCIALI che ledono i diritti contrattuali e patrimoniali del consumatore (C.P.Tutela della buona fede del consumatore – lealtà degli scambi commerciali). Si tratta di reati compiuti da chi nell’esercizio del commercio ”consegna all’acquirente una cosa per un’altra o diversa da quella dichiarata o pattuita per origine, provenienza, qualità o quantità”. In tal modo non si rendono “nocive” le sostanze alimentari,ma si realizza un inganno ed illecito profitto a danno del consumatore ( es. vendita per tara merce = pesare la carta con la merce).
L’approccio al sistema sanzionatorio delle frodi alimentari penalmente rilevanti si lega alla riconducibilità delle trasgressioni a tre diversi livelli:
Il primo livello (Reati di pericolo concreto = nocività’) riguarda la disciplina prevista dagli articoli 439, 440, 442, 444, 452, 514, 515, 516, 517,del Codice penale.
Il secondo (Reati di pericolo potenziale=PERICOLOSITA’) riguarda la Legge n° 283/1962 inerente la disciplina igienico-sanitaria della produzione e della vendita delle sostanze alimentari;
Il terzo riguardale normative specifiche di settore che disciplinano la composizione (in natura o nel disciplinare) e le modalità di conservazione dei prodotti alimentari.
CODICE PENALE
Reati di pericolo concreto (nocività)
Art. 439: avvelenamento di acque o di sostanze alimentari
Art.440: adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari
Art.441: adulterazione e contraffazione di altre cose in danno della pubblica salute Art.442: commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate
Art.444: commercio di sostanze alimentari nocive
Art.452: delitti colposi contro la salute pubblica
Reati di pericolo concreto (inganno ed illecito profitto)
Art.514: frodi contro le industrie nazionali
Art.515: frode nell’esercizio del commercio
Art.516: vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine
Art.517: vendita di prodotti industriali con segni mendaci
Art.517 bis: circostanza aggravante
Il Codice penale riguarda i reati di pericolo concreto (nocività) commessi mediante frode sanitaria o commerciale (inganno e illecito profitto) ed infatti punisce le condotte illecite di adulterazione, contraffazione e sofisticazione di sostanze alimentari atte a produrre danni alla collettività (erga omnes).
Le disposizioni della LEGGE 283/62 (art.5) sanzionano invece le violazioni (reati di pericolo potenziale = pericolosità) quindi le condotte illecite di alterazione delle sostanze alimentari concernenti la genuinità (= sostanza alimentare che contiene con la max. esattezza le sostanze o
i loro quantitativi previsti da natura o disciplinare, e che non contiene additivi vietati) l’integrità (stabilità della composizione biologica-chimica-fisica) e la purezza (sostanza adatta al consumo umano dal punto di vista commerciale, merceologico, legislativo ed igienico-sanitario) dei prodotti alimentari. Detta legge assoggetta a vigilanza e controllo per la tutela della salute,la produzione ed il commercio delle sostanze destinate all’alimentazione umana(art.1,3,4-UPG); inoltre prevede,tra l’altro, l’autorizzazione sanitaria (art.2 – oggi trasformata in DIA/SCIA per la registrazione /riconoscimento); prevede l’etichettatura dei prodotti alimentari (art.8); prende in considerazione le pubblicità improprie ed ingannevoli (art.13).
Legge 283/62 art. 5
E’ vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere o detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari:
a) private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne (variate) la composizione naturale (o da disciplinare), salvo quanto disposto da leggi e regolamenti speciali;
b) in cattivo stato di conservazione;
c) con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno stabiliti dal regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali (O.M. II.XI78-Reg.CE2073/05)
d) insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione;
e) abrogato
f) abrogato
g) con aggiunta di additivi chimici (D.M.209/92) di qualsiasi natura non autorizzati con decreto del Ministro per la sanità o nel caso che siano stati autorizzati, senza l’osservanza delle norme prescritte per il loro impiego. I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisione annuale;
h) che contengono residui di prodotti (fitosanitari) usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l’uomo. Il Ministro per la sanità, con propria ordinanza, stabilisce per ciascun prodotto autorizzato all’impiego per tali scopi, i limiti di tolleranza (LMR) e l’intervallo per tali scopi, i limiti di tolleranza e l’intervallo minimo che deve intercorrere tra un trattamento ed il successivo (persistenza), tra l’ultimo trattamento e la raccolta (carenza) e per le sostanze alimentari immagazzinate, tra l’ultimo trattamento e l’immissione al consumo (tempo di persistenza; tempo di carenza; tempo di rientro (nel campo trattato); DL50 (= dose di veleno che uccide il 50% degli animali trattati).
Nel 1999 con il D.Lgs n°507 del 30 dicembre ‘99 viene introdotto nel quadro normativo nazionale la “Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio” che porta il
legislatore a trasformare, in varie norme vigenti, le sanzioni penali in sanzioni di natura amministrativa. Tuttavia non sono depenalizzati i reati previsti dagli articoli 5, 6, 12 della Legge 283/62. Lo stesso Decreto, all’art. 5 introduce nel Codice Penale l’art. 517 bis che prevede la “circostanza aggravante” per le violazioni che interessano le produzioni alimentari protette da marchi europei. Le pene stabilite dagli articoli 515, 516, 517 C.P. sono aumentate (aggravate!) se i fatti da essi previsti hanno ad oggetto alimenti e bevande protetti da marchi europei (DOP-IGP- STG). In tali casi il Giudice di I° grado,nel pronunciare la condanna, se il fatto è di particolare gravità da cui sia derivato danno per la salute pubblica o in caso di recidiva specifica, dispone la revoca del provvedimento che autorizza l’attività commerciale cui segue chiusura definitiva; in casi meno gravi dispone la sospensione del provvedimento con chiusura temporanea da cinque giorni a tre mesi.
In tale contesto vanno ricordati inoltre altri articoli del codice penale come l’art. 473 C.P. (Contraffazione e Alterazione dei marchi europei), art.474 C.P. (Introduzione e Commercio negli Stati UE di prodotti con marchi contraffatti o alterati), art. 474 bis C.P. (Confisca di tali prodotti), art.474terC.P. (Circostanza aggravante: per dettagliata organizzazione delle azioni delittuose), art.474 quater C.P. (Circostanza attenuante: per dimostrazione di collaborazione).
La Legge 99/2009 a sua volta ha introdotto nel Codice Penale gli artt.517 ter (Fabbricazione e Introduzione/Commercio di prodotti DOP-IGP-STG con marchi EU usurpati -per profitto), 517 quater (Contraffazione-imitazione perfetta e Alterazione – imitazione imperfetta – di prodotti contrassegnati da marchi europei -per profitto), 517 quinquies (circostanza attenuante per dimostrata collaborazione), riguardanti altre fattispecie penali inerenti tali produzioni.
Il D.Lgs 297/2004 aveva già previsto disposizioni sanzionatorie amministrative riguardo a violazioni che interessavano le produzioni protette da marchi europei, senza tralasciare di prevedere la “riserva penale” per le varie fattispecie considerate nel Decreto stesso. Per cui con la promulgazione della Legge 99/2009 viene a configurarsi un “concorso di norme” tra le due disposizioni legislative. Le due norme realizzano un concorso formale in quanto tutelano diverse oggettività giuridiche(la legge 99/2009 tutela la buona fede del consumatore; il D.Lgs 297/2004 tutela la salute del consumatore) e quindi sono entrambe applicabili, per cui utilizzando l’art 24 della Legge 689/81 ne deriva la competenza a conoscere del Giudice unico di 1° grado per entrambe le violazioni. Per la violazione amministrativa il Giudice può delegare a procedere l’Organo che l’ha accertata.
Di recente il Dipartimento per la sanità pubblica veterinaria, sicurezza alimentare e nutrizione ha presentato una bozza del Codice della sicurezza alimentare già sottoposto alla visione della Commissione Interregionale per il parere,in attesa di discussione al tavolo della Conferenza Stato-Regioni, che prevede la depenalizzazione dei reati alimentari con la sparizione dell’azione penale (Capo VI). Ciò ha suscitato notevoli proteste da parte di tutte le Associazioni di categoria ed in specie dei consumatori, con blocco dei lavori sul Codice.
Va inoltre ricordato che il Ministero della Salute, periodicamente pubblica, giusto art.8 della Legge 462/86 (metanolo!!), un DECRETO Min. Salute contenente l’elenco delle ditte commerciali e dei produttori del settore alimentare che hanno riportato condanne con sentenza passata in giudicato.
A proposito poi dell’art. 452 del C.P. (Delitti colposi contro la salute pubblica) viene precisato che quando i fatti previsti dagli art. 440, 442, 444 sono commessi per COLPA (lieve-media-grave per imprudenza, imperizia, negligenza) e non per dolo, le pene stabilite dagli articoli citati sono ridotte da un terzo ad un sesto.
Il D.Lgs 109/92 (ETICHETTATURA prodotti alimentari), nella fattispecie di etichettatura irregolare o assente=mancanza (sentenza Cassazione n°27704/2010) realizza concorso di norme con l’art.515
del C.P. Si tratta, infatti, di concorso formale in quanto le due norme tutelano diverse oggettività giuridiche (il D.Lgs 109/92 tutela la salute pubblica mentre l’art 515 del CP tutela la buona fede del consumatore) e pertanto le norme sono entrambe applicabili (art.24 Legge 689/81).
Per le frodi alimentari su trattate va presa in considerazione anche la FORMA TENTATA DEL DELITTO che consiste nel compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere la fattispecie di reato senza che,tuttavia, si verifichi il pericolo per la salute.
FATTISPECIE DI FRODI ALIMENTARI
Adulterazione (Codice Penale art. 440,442) Azione fraudolenta consistente in
“modificazione“non dichiarata (in etichetta), dei componenti del prodotto alimentare. Il prodotto viene privato di componente utile per la sua efficacia nutritiva e/o si aggiunge sostanza di scarso valore per aumentare il peso /volume. Modificazioni nella composizione analitica del prodotto alimentare per aggiunta o sottrazione di componenti senza che il prodotto venga modificato in maniera apprezzabile (latte scremato X intero—latte, vino annacquati).
Contraffazione (Codice Penale art. 440.442) Azione fraudolenta a “imitazione perfetta” per
far apparire un prodotto alimentare dotato di caratteristiche diverse da quelle che realmente possiede. Il prodotto viene presentato e dichiarato con caratteristiche di un prodotto più pregiato. Totale “sostituzione” di una sostanza alimentare con un’altra di minor pregio,ingannando il consumatore. Frode molto pericolosa quando per sostituire i componenti originali/naturali si utilizzano sostanze nocive.(olio di semi (di colza =ac.erucico!!) X olio d’oliva—margarina X burro).
Sofisticazione (Codice Penale art.515/art.5 L. 283/62) Azione fraudolenta consistente nel
sostituire alcuni costituenti del prodotto alimentare con altri di minor pregio. Il prodotto viene trattato in modo da renderlo più attraente o simile ad altri prodotti più pregiati e quindi più costosi. “Aggiunta” all’alimento di sostanze estranee alla sua composizione X migliorare aspetto— X mascherare difetti vari e di procedimenti produttivi—X ravvivare il colore (nitriti nitrati) –X mascherare uso di materie prime di cattiva qualità. Impiego di coloranti e conservanti non autorizzati o se autorizzati quando sono aggiunti in quantità superiore al limite di legge o fuori dalle procedure di legge(vino:solfiti)(alcool etilico sostituito con alcool metilico=metanolo!!!)
Alterazione (Legge.283/62 art. 5) Azione fraudolenta consistente nella “variazione” delle caratteristiche di composizione ed organolettiche e quindi nutrizionali di un prodotto alimentare, dovuta a fenomeni degenerativi spontanei o inadeguata/errata modalità di conservazione.(eccessivo prolungamento dei tempi di conservazione: scadenza –t.m.c.).
Nei prodotti alimentari, sia naturali che composti-preparati secondo un dato disciplinare, sono presenti vari costituenti in determinate proporzioni che vanno mantenuti costanti salvo modificazioni previste per legge (solfiti!!). I coadiuvanti tecnologici, ad es., usati nelle lavorazioni per coadiuvare il processo produttivo, non debbono assolutamente residuare all’interno del prodotto alimentare. (Es. assenza di esano – gas utilizzato per l’estrazione – nell’olio di sansa di olivo).
FATTISPECIE DI FRODI ALIMENTARI:
 false dichiarazioni in merito alla provenienza,alla qualità, alla composizione, ed alle caratteristiche di un prodotto alimentare;
 indicazioni ingannevoli ed insidiose atte a magnificare indebitamente un prodotto alimentare e le sue caratteristiche;
 mancata corrispondenza degli ingredienti dichiarati in etichetta(realizzata attraverso l’assenza o minor contenuto);
 mancata dichiarazione degli ingredienti vietati o di minor valore (olio d’oliva in luogo di olio extra vergine di oliva;
 manipolazioni della data di scadenza o del termine minimo di conservazione;
* Già Direttore SIAN ASL Taranto

a cura dell’ avv. Fedele e della Dott.ssa Mazzola

Le frodi negli alimenti di origine animale

Rapporto agromafie 2015

Una filiera che corre “dal produttore al consumatore”, per un giro di affari che nel 2014 ha raggiunto 15,4 miliardi di euro. È questo secondo il Rapporto Agromafie 2015 il volume del crimine agroalimentare in Italia. Lo studio presentato il 15 gennaio a Roma dai presidenti di Coldiretti, Roberto Moncalvo, di Eurispes, Gian Maria Fara, e dall’ex procuratore di Torino Gian Carlo Caselli, che oggi presiede l’Osservatorio sulla criminalità agroalimentare creato dai due enti, denuncia un aumento degli affari delle agromafie in Italia del 10 per cento solo nell’ultimo anno. Un dato che dimostra quanto l’agroalimentare sia diventato un settore di investimento privilegiato per la malavita e quanto questa economia sporca riesca a crescere nonostante la recessione economica.
Il rapporto ricorrendo ai dati raccolti da forze dell’ordine, magistratura e altre istituzioni di settore, traccia i contorni di una criminalità che giganteggia sull’intera filiera agroalimentare accaparrandosi terreni, gestendo manodopera agricola, occupandosi di produzione, trasporto e stoccaggio della merce. Fino all’acquisto di supermercati e ristoranti, dal nord al sud d’Italia, e pure fuori dai confini nazionali. Proprio la ristorazione si mostra come uno dei settori maggiormente a rischio, tanto da far contare circa cinquemila locali nelle mani della criminalità organizzata, dai franchising ai locali esclusivi, dai bar alle trattorie, ai ristoranti di lusso fino agli aperibar alla moda. Attività “pulite” che si affiancano a quelle “sporche”, avvalendosi degli introiti delle seconde.

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La crescita dell’agromafia, secondo lo studio, è favorita da situazioni congiunturali, come quelli climatici e di crisi economica, ma anche dalla volontà di alcuni soggetti “puliti” che decidono di investire il loro denaro in settori redditizi come l’illecito del settore agroalimentare, che ha dimostrato di saper crescere anche in un periodo di recessione. Il fenomeno prende il nome di money dirtying e consiste nell’investimento di capitali puliti nell’economia sporca, ovvero l’inverso del riciclaggio. Un travaso che ogni mese sposta dall’economia sana a quella illegale circa 120 milioni di euro, un miliardo e mezzo all’anno, ma che ha anche effetti di ibridazione tra mondo legale e illegale che vanno ben al di là della semplice sfera economica, mettendo in stretto contatto “colletti bianchi”, imprenditori, esponenti delle istituzioni e personaggi “borderline” quando non direttamente esponenti del mondo criminale.
Secondo Coldiretti/Eurispes anche il prossimo appuntamento di Expo 2015 potrebbe rappresentare un momento di pericolo per il settore agroalimentare. Perché potrebbe favorire i traffici illegali di alimenti e riversare sul mercato tonnellate di prodotti contraffatti e venduti come made in Italy. Del resto questo tipo di contraffazione già esiste ed è stata rilevata nelle più recenti inchieste giudiziarie che hanno scoperto limoni sudamericani commercializzati come limoni della penisola sorrentina; agrumi nordafricani trasformati in agrumi siciliani e calabresi; mozzarella venduta come made in Italy e prodotta con cagliate del Nord Europa. Per non parlare delle sofisticazioni e frodi legate alla produzione e commercio di olio di oliva e pomodoro, che rappresentano i due prodotti più a rischio. Sono spesso le annate magre, come questa del 2015, che aprono la porta a prodotti di minore qualità o direttamente illegali. Secondo Coldiretti il mercato europeo dell’olio di oliva, con consumi stimati attorno a 1,85 milioni di tonnellate, rischia quest’anno di essere invaso dalle produzioni provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente che non sempre hanno gli stessi requisiti qualitativi e di sicurezza.
In chiusura il rapporto dedica alcune pagine anche agli acquisti sul web e al fatto che, accanto alle esperienze positive, l’e-commerce venga spesso utilizzato come porto franco per prodotti taroccati. L’incremento degli acquisti sulla rete, nel nostro Paese, è stato del 17% rispetto all’anno precedente, per un volume economico pari a 13,2 miliardi di euro, e in questo contesto il settore agroalimentare si è collocato al secondo posto della classifica, con una quota del 12%. Il punto è che sono stati individuati, solo nell’ultimo anno, 70 diverse tipologie di prodotti contraffatti che venivano venduti sul web. Tra gli alimenti per i quali sono state più spesso le frodi più frequenti figurano i prodotti tipici della tradizione locale e regionale (32%), i prodotti Dop e Igp (16%) ed i semilavorati (insaccati, sughi, conserve, ecc.,12%). Mentre tra le categorie contraffatte il primato negativo spetta ai formaggi Dop. Per non parlare poi dei kit che vengono venduti per preparare il Parmigiano, o il vino in polvere che viene confezionato in Canada e che promette di ricreare in poche settimane un perfetto Barolo.

a cura dell’ avv. Fedele e della Dott.ssa Mazzola

L’importanza della denuncia

Negli ultimi anni la cronaca è satura di episodi di violenza, soprattutto in danno di donne e di minori. La violenza, domestica e non, è all’ordine del giorno, vuoi perché violenza genera violenza, vuoi perché appare sempre più semplice sopraffare chi, fisicamente, appare più debole.
In situazioni così delicate ed allo stesso tempo pericolose, è necessario comprendere e far comprendere, come la legge intervenga a tutela delle vittime di simili angherie.
In vero, in ipotesi di tal fatta, le sofferenze e i dubbi di chi subisce o ha subito violenza sono acuite ancor più da quel rapporto di dipendenza psicologica e/o economica che unisce le vittime al proprio carnefice. Solo in tale ottica può comprendersi l’importanza della denuncia, per sostenere chi, non più solo, riesce a recidere quel filo di soggezione, tornando ad una nuova vita.
In tale percorso, tutt’altro che breve e semplice, il nostro ordinamento predispone particolari strumenti di tutela.
Si pensi all’audizione protetta della persona offesa, sia nella fase delle indagini preliminari che in quelle processuali successive. Si pensi, altresì, alla possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale, al fine di veder ristorati,per quanto possibile, i danni sofferti.
Inoltre, per combattere ancor più tenacemente il fenomeno della violenza di genere, con il D.L.93/13 convertito in L.119/13, il legislatore ha esteso l’ammissione al Patrocinio a spese dello Stato, senza limiti reddituali, alle vittime dei reati di maltrattamenti in famiglia (art.572 c.p.) di atti persecutori (c.d.”stalking”-art.612 bis c.p.) e di mutilazione degli organi genitali femminili (art.583 bis c.p.).
In tal modo, la tutela giudiziale e stragiudiziale è apprezzata in forma estesa, senza limiti di sorta, in ossequio al dettato costituzionale e comunitario.
Allo stesso modo è prevista la possibilità per gli stranieri vittime di reati di violenza domestica, commessi nel territorio dello Stato italiano, di ottenere uno specifico permesso di soggiorno (art.18 bis D.Lgs.286/98).
Si tratta di pochi esempi, che tuttavia possono aiutare ed accompagnare la vittima nel cammino che va dalla denuncia alla rinascita.

a cura dell’ avv. Concetta Chiricone