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Il danno risarcibile

Come è noto, il danno risarcibile si divide nel danno patrimoniale e nel danno patrimoniale.
Circa il danno patrimoniale, l’art. 1223 c.c. dispone che il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore (cd. danno emergente), come il mancato guadagno (cd. lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (cd. principio della causalità giuridica).
Con riguardo al danno emergente, vi rientrano senza dubbio gli esborsi monetari o diminuzioni patrimoniali già intervenuti, ma anche “l’obbligazione di effettuare l’esborso, in quanto il “vinculum iuris”, nel quale l’obbligazione stessa si sostanzia, costituisce già una posta passiva del patrimonio del danneggiato, consistente nell’insieme dei rapporti giuridici, con diretta rilevanza economica, di cui una persona è titolare” (Cass. 22826/2010). Il lucro cessante, invece, riguarda una prospettiva economica futura (reale e concreta), venuta meno a causa dell’inadempimento.
Il cd. danno da perdita capacità lavorativa specifica rientra, per giurisprudenza costante, nel danno patrimoniale, e spetterà al danneggiato dar prova, anche tramite presunzioni, “dello svolgimento di un attività produttiva di reddito e di perdita, dopo l’infortunio, della capacità di guadagno rispetto a tale attività ovvero della capacità, anche generica, di attendere ad altri lavori confacenti alle attitudini del danneggiato” (Cass. 17167/2012; Cass. 10074/2010).
La Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che: “il danno per perdita del reddito deve essere integralmente risarcito come danno emergente (poiché, quando manca il reddito emerge la necessità di ricorrere al risparmio accumulato o all’indebitamento) e lucro cessante (per il mancato guadagno che si protrae per l’intera esistenza), non dovendosi operare una compensazione e quindi, una diminuzione del danno patrimoniale del lavoratore, in considerazione della permanenza della capacità lavorativa generica, la cui riduzione o perdita è inerente al valore dell’uomo come persona e deve essere valutata all’interno della liquidazione del danno biologico.” (Cass. 2589/2002).
Inoltre “Ai fini della valutazione del danno patrimoniale da lucro cessante per perdita della capacità lavorativa specifica, sono applicabili i criteri indicati dall’art. 2057 c.c., in base ai quali, quando il danno alla persona ha carattere permanente, la liquidazione può essere fatta dal giudice sotto forma di rendita vitalizia, valutando d’ufficio le particolari condizioni della parte danneggiata e la natura del danno” (24451/2005).
Il danno non patrimoniale, si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati di rilevanza economica. Al riguardo il Giudice di Legittimità, ha chiarito e delineato sia il concetto di “danno non patrimoniale”, come categoria unitaria comprendente il danno biologico, il danno morale, il danno esistenziale, il danno da perdita di capacità lavorativa generica, e ne ha stabilito la disciplina risarcitoria.
In sintesi, la Suprema Corte ha sancito quanto segue.
Il danno non patrimoniale, normativamente previsto dall’art. 2059 c.c., deve essere riconosciuto:
1) in tutti i casi in cui sia espressamente previsto dalla legge (ad es. art. 185 c.p.);
2) al di fuori dei casi determinati dalla legge, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili (cfr. Cass. 8827 e 8828 del 2003), e ciò indipendentemente dalla natura contrattuale o extracontrattuale della fonte della
responsabilità civile (Cass. S.U. 26972/2008).
Il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria, nella quale vanno ricompresi il danno biologico, il danno morale, il danno esistenziale, il danno da perdita di capacità lavorativa generica, danno da perdita del rapporto parentale, etc. Infatti, il riferimento a determinati tipi di pregiudizio (biologico, esistenziale, etc.) risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
Fermo quanto sopra, e cioè l’unitarietà del danno non patrimoniale, la Suprema Corte (Cass. S.U. 26972/2008) precisa che, sono suscettibili di risarcimento di danno non patrimoniale, oltre ai casi sanciti dalla legge, tutti i casi di lesione di un interesse costituzionalmente protetto, tra i quali si annoverano (a titolo esemplificativo):
– il cd. danno biologico (quale lesione del diritto alla salute, art. 32 Cost.), figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamicorelazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Al danno biologico, al quale deve essere riconosciuta una portata sostanzialmente omnicomprensiva, devono essere ricondotti:
() il danno morale, quando integri una degenerazione patologica,
() il danno esistenziale o danno alla vita di relazione, conseguente alla lesione all’ integrità psicofisica
() il cd. danno da perdita della capacità lavorativa generica (Cass. S.U. 2008/26973)
– il cd. danno morale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto in sè considerato. Ma laddove tale sofferenza abbia prodotto delle degenerazioni patologiche, si rientrerà nel cd. danno biologico.
– il cd. danno da perdita del rapporto parentale, quale lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.);
Quanto ai criteri di quantificazione del danno biologico, la Cassazione con sentenza n. 12408/2011, facendo espresso richiamo alla propria funzione nomofilattica, ha sancito i seguenti principi:
a) Nell’ipotesi di lesioni di lieve entità (postumi permanenti non superiori al 9%) derivanti da circolazione dei veicoli a motore e natanti (sinistri stradali), la liquidazione del danno biologico dovrà avvenire secondo i criteri di cui all’art. 139 Cod. Assic. (ossia utilizzando le tabelle di cui al decreto ministeriale).
b) Negli altri casi, si tratti di lesioni di lieve o grave entità, i criteri da adottarsi per la liquidazione del danno all’integrità psico-fisica dovranno essere quelli tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano (cd. Tabelle del Tribunale di Milano), i quali “costituiranno d’ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi “equo”, e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l’entità”.
In ogni caso, nella liquidazione del danno, il Giudice, nell’avvalersi delle sopra dette tabelle, dovrà “procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (Cass. S.U. 26972/2008)
La Suprema Corte (sent. 12408/2011 citata) giunge a tali conclusioni interpretando il concetto di equità (presente in numerose norme del codice civile, e non solo), il quale racchiude in sè due caratteristiche, che rispondono alla necessità di contemperare due diverse esigenze:
1) La prima è l’essere essa uno strumento di adattamento della legge al caso concreto.
2) La seconda è di garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale, o viceversa: sotto questo profilo l’equità vale ad eliminare le disparità di trattamento e le ingiustizie. Alla nozione di equità è quindi consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione.
Equità, in definitiva, non vuoi dire soltanto “regola del caso concreto”, ma anche “parità di trattamento”, e così intesa essa costituisce strumento di eguaglianza, attuativo del precetto di cui all’art. 3 Cost., perchè consente di trattare i casi dissimili in modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio.
Con riferimento alla liquidazione del danno biologico nella motivazione della sentenza 14 luglio 1986, n. 184, la Corte Costituzionale chiarì che nella liquidazione del danno alla salute il giudice deve combinare due elementi: da un lato una “uniformità pecuniaria di base”, la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto; dall’altro elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione sulle attività della vita quotidiana.
Il criterio della compresenza di uniformità e flessibilità è stato condiviso da questa Corte, la quale ha ripetutamente affermato che nella liquidazione del danno biologico il giudice del merito deve innanzitutto individuare un parametro uniforme per tutti, e poi adattare quantitativamente o qualitativamente tale parametro alle circostanze del caso concreto.
Il conseguimento di una ragionevole equità nella liquidazione del danno deve perciò ubbidire a due principi che, essendo tendenzialmente contrapposti (la fissazione di criteri generali e la loro adattabilità al caso concreto), non possono essere applicati in modo “puro”. Il contemperamento delle due esigenze di cui si è detto richiede sistemi di liquidazione che associno all’uniformità pecuniaria di base del risarcimento ampi poteri equitativi del giudice, eventualmente entro limiti minimi e massimi, necessari al fine di adattare la misura del risarcimento alle circostanze del caso concreto.
Pertanto, il Giudice di Legittimità, richiamando il proprio ruolo nomofilattico, ritenendo necessario individuare criteri uniformi per la liquidazione del danno biologico (fermo il principio di adattamento al caso concreto), ha individuato nelle Tabelle di Milano i parametri da applicarsi a livello nazionale, dato anche il loro già diffuso utilizzo nei Tribunali del Paese.

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

Il consenso informato

Nella recentissima sentenza della Suprema Corte, sentenza n. 20984 del 27/11/2012, nella quale viene efficacemente riassunta la disciplina in materia, si legge: “Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza il consenso informato l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente.
Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell’eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla; e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale (v. per tutte Cass. 16.10.2007 n. 21748).
Secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub n. 4 del Considerato in diritto) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32
Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso informato discende a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all’adempimento dell’obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto b) dal verificarsi – in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa – di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente.
Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno.
Ciò perchè, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (v. anche Cass. 28.7.2011 n. 16543).
In ordine alle modalità e caratteri del consenso, è stato affermato che il consenso deve essere, anzitutto, personale: deve, cioè provenire dal paziente, (ad esclusione evidentemente dei casi di incapacità di intendere e volere del paziente); deve poi essere specifico e esplicito (Cass. 23.5.2001 n. 7027); inoltre reale ed effettivo; ciò che vuoi significare che non è consentito il consenso presunto; ed, ancora, nei casi in cui ciò sia possibile, anche attuale (v. per le relative implicazioni Cass. 16.10.2007 n. 21748).
Infine, il consenso deve essere pienamente consapevole, ossia deve essere “informato”, dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico”.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, la giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di chiarire che, poiché il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni possibile rischio ed ogni alternativa, “nell’ambito degli interventi chirurgici, in particolare, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si
estende ai rischi prevedibili” (Cass. 364/1997), ma “Tendenzialmente anche gli esiti anomali o poco probabili – se noti alla scienza medica e non del tutto abnormi – debbono essere comunicati, sì che il malato possa consapevolmente decidere se correre i rischi della cura o sopportare la malattia, soprattutto nei casi in cui non si tratti di operazione indispensabile per la sopravvivenza”, giacchè l’informazione offerta al paziente “deve essere completa ed includere non solo la descrizione della cura o dell’intervento a cui il malato verrà sottoposto, ma anche quella delle complicazioni che – pur senza colpa dei sanitari – potrebbero derivarne” (Cass. 2483/2010, relativa ad intervento di artoprotesi d’anca cui conseguiva lesione del nervo femorale).
Quest’ultima sentenza, peraltro, riprende altro principio consolidato in giurisprudenza, secondo cui, se da un lato l’informazione al paziente può essere data con ogni mezzo, non essendo richiesta la forma scritta (pur sempre auspicabile), dall’altro lato, tuttavia, “la completa e corretta informazione non è un dato che possa desumersi dalla mera sottoscrizione di un modulo del tutto generico (Cass. civ. Sez. 3, 8 ottobre 2008 n. 24791).
Il medico (e la struttura sanitaria nell’ambito della quale egli agisce) debbono invece fornire, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente acquisite sulle terapie che si vogliono praticare, o sull’intervento chirurgico che si intende eseguire, illustrandone le modalità e gli effetti, i rischi di insuccesso, gli eventuali inconvenienti collaterali, ecc. (Cass. civ. Sez. 3, 2 luglio 2010 n. 15698).
In caso di contestazione, grava sul medico l’onere della prova di avere fornito tutte le informazioni del caso (Cass. civ., Sez. 3, 9 febbraio 2010 n. 2847)” costituendo l’obbligo di informare correttamente ed esaustivamente il paziente un aspetto dell’obbligazione sanitaria, la cui
natura contrattuale è già stata ampiamente illustrata poc’anzi.
Quindi, dall’omissione del dovere di informazione del paziente circa i trattamenti sanitari, discendono:
– la violazione dell’obbligo contrattuale che lega il medico al paziente;
– l’illegittimità del trattamento sanitario eseguito, per violazione dell’art. 32 Cost., comma 2, (in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), dell’art. 13 Cost., (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e della L. n. 833 del 1978, art. 33, (che esclude la possibilità, d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.);
– la lesione dei diritti essenziali della persona alla libera autodeterminazione ed alla volontarietà del trattamento sanitario, diritti costituzionalmente tutelati.
Ne consegue che, in caso di omessa informazione, il medico (e la struttura sanitaria) rispondono
a) sia della lesione al cd. “diritto alla libera autodeterminazione del paziente” in relazione ai trattamenti sanitari, costituente diritto autonomo, la cui violazione costituisce voce specifica di danno, con conseguente quantificazione risarcitoria anche in considerazione del turbamento e della sofferenza provocati dal verificarsi di conseguenze inaspettate (dal paziente che non è stato informato) conseguenti al trattamento sanitario eseguito (cfr. Cass. 24853/2010).
b) sia delle eventuali conseguenze nefaste dell’intervento, e ciò anche se non siano addebitabili profili di colpa (cfr. Cass. 20984/2012, Cass. 5444/2006, Cass. 9374/1997). Come si è detto, in virtù della natura contrattuale della prestazione sanitaria (a cui appartiene anche l’obbligo di una corretta informazione del paziente), l’onere probatorio di aver adeguatamente informato il paziente spetta ad debitore (medico/struttura sanitaria), incombendo sul creditore (paziente) l’onere di provare il contratto (o contatto), il danno e l’allegazione dell’inadempimento qualificato, che nel caso di specie consiste nella deduzione (che dovrà poi essere accertata in sede di giudizio, al fine di stabilire se l’inadempimento sia giuridicamente rilevante) secondo cui la disinformazione lamentata abbia comportato una scelta terapeutica che, altrimenti, sarebbe stata, con alta probabilità rifiutata o modificata dal paziente stesso (Cass. 20984/2012, Cass. 16394/2010).

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

Responsabilità medica

La responsabilità medica è argomento complesso, nel quale confluiscono fondamentali istituti giuridici, ed ovvie esigenze di contemperamento degli interessi contrapposti e di equità.
Il percorso giurisprudenziale, lungo e difficile, spesso è solcato da decisioni nelle quali trasuda la sofferenza del giudicante, chiamato a decidere casi umanamente toccanti, alla luce di criteri normativi non sempre adeguati.

La nota sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 577/2008, chiamata a dirimere, con funzione nomofilattica, i conflitti giurisprudenziali sussistenti in materia di inquadramento giuridico della responsabilità medica ha definito la natura contrattuale della responsabilità civile sia della struttura sanitaria (pubblica e/o privata che sia) presso alla quale il paziente si è rivolto per ricevere le prestazioni sanitarie, sia del medico che tali prestazioni abbia concretamente eseguito.
In particolare, secondo il Giudice di legittimità, la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria trova fondamento nel cd. contratto di spedalità o contratto di assistenza 2 sanitaria (che si perfeziona a con la semplice accettazione del paziente nella struttura, cfr. Cass. 8826/2007), in virtù del quale la struttura deve fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.
La giurisprudenza, sulla base di quanto sopra , è giunta a qualificare il rapporto struttura sanitaria – paziente come distinto rispetto al rapporto medico – paziente, definendo il cd. contratto di spedalità come autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive, dal quale derivano obbligazioni di rettamente riferibili all’ente (ex multis, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) con conseguenti peculiari profili di responsabilità , che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, ed al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c.
Ne consegue che può aversi una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato
a) Sia per il fatto della struttura stessa (es. insufficiente o inidonea organizzazione)
b) Sia per il fatto del personale dipendente o ausiliario (responsabilità che va ricondotta sempre all’art. 1228 c.c., per il principio secondo cui secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle proprie dipendenze).
L’orientamento giurisprudenziale dominante qualifica come contrattuale anche l’obbligazione del medico nei confronti del paziente.
Il fondamento giuridico deve essere ravvisato , a seconda dei casi:
a) nell’ipotesi di un rapporto proprio tra medico e paziente, nel contratto specifico intercorso tra i due (es. ambulatorio privato), il quale assumerà, a seconda dei contenuti, la configurazione di un contratto di prestazione d’opera professionale, di un contratto complesso, etc.
b) nell’ipotesi, invece, di un rapporto tra il medico e paziente che trovi la propria occasione nel “ contratto di spedalità ” intercorso tra un paziente ed una struttura sanitaria, in virtù del quale il medico (dipendente o comunque incardinato 3 nell’ente) esegua la prestazione sanitaria, il fondamento della responsabilità del medico nei confronti del paziente viene individuato nel cd. contatto sociale (cfr., senza pretese di completezza Cass. 589/1999, Cass. S.U. 577 /2008).
Nella sentenza n. 8826/2007, la Suprema Corte precisa che il cd. contatto sociale costituisce fonte di un rapporto (contrattuale) avente ad oggetto una prestazione che si modella su quella del contratto d’opera professionale, in base al quale il me dico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto “contatto”, e in ragione della prestazione medica conseguentemente da eseguirsi.

La responsabilità medica a seguito dell’intervento Balduzzi.

Come è noto il legislatore, con decreto legge n. 158/2012 (come convertito dal la legge 189/2012) ha introdotto all’art. 3, comma 1, una disposizione del seguente tenore: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo comma”.

Non sono mancate, dalla dottrina, immediate critiche alla formulazione sopra detta (definita dai più “infelice” ), la quale dunque lascia oggi agli interpreti (nell’attesa di un quanto mai sperato chiarimento legislativo) il compito di definirne ambito e portata.
In primis occorre subito rilevare che, in ogni caso, la disposizione citata lascia senza dubbio immutata la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, sia per il fatto proprio sia per il fatto del personale dipendente o ausiliario, riguardando esclusivamente la responsabilità del personale sanitario.
Con riguardo a tale ultima ipotesi (la responsabilità del personale sanitario), il riferimento all’art. 2043 c.c. contenuto nell’art. 3, co. 1° della citata l. n. 189/12 ha indotto a dubitare della possibilità di continuare ad applicare in modo generalizzato i criteri di accertamento della responsabilità contrattuale, fino a far ritenere che “ il Legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato 4 anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana ” (Trib. Varese, n. 1406 del 26.11.12).
Sennonchè, il Tribunale di Arezzo, con una recentissima sentenza (sentenza del 14/02/2013) offre una interpretazione della disposizione citata senz’altro più conforme ai principi dell’ordinamento giuridico vigente, negando che ne discenda una configurazione di natura extracontrattuale della responsabili tà del medico.
Il Giudicante, muovendo da analisi letterale del testo normativo, ne individua la ratio, rilevando come il legislatore abbia inteso, con la citata norma, escludere la responsabilità penale del sanitario che sia incorso in colpa lieve pur attenendosi alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Il secondo periodo della disposizione, continua il Giudice di merito, è riferito a tale specifica ipotesi, e chiarisce che l’esclusione della responsabilità penale non fa tuttavia venir meno l’obbligo di risarcire il danno (in ciò sostanziandosi l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.), nella cui quantificazione il giudice dovrà tenere conto dell’avvenuto rispetto delle linee guida e buone pratiche.
Pertanto, poiché la norma deve essere unitariamente interpretata, precisa la sentenza in commento, non può estrapolarsi dal secondo periodo (“ In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile” ) un principio generale ed autonomo riguardante la natura giuridica della responsabilità medica “ che imponga un revirement giurisprudenziale nel senso del ritorno ad un’impostazione aquiliana, con le consequenziali ricadute in punto di riparto degli oneri probatori e di durata del termine di prescrizione ” (come vorrebbe la sentenza del Tribunale di Varese n. 1406 del 26.11.12) .
Infatti, il generico richiamo all’art. 2043 c.c. ( senza alcuna indicazione in merito ai criteri da applicare nell’accertamento della responsabilità risarcitoria – se non che deve tenersi “debitamente conto” del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche – e senza un richiamo alle altre norme costituenti il sistema della responsabilità extracontrattuale) deve essere inteso unicamente come “ limitato all’individuazione di un obbligo (‘obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile’, che equivale a dire ‘obbligo di risarcimento del danno’) ”, non potendosi affermare “ che richiamare un obbligo equivalga a richiamare un’intera disciplina ” e dovendosi quindi concludere “ che il riferimento all’art. 2043 c.c. (si badi: non alla disciplina dell’illecito extracontrattuale, ma esclusivamente all’obbligo 5 “di cui all’art. 2043 del codice civile”) sia del tutto neutro rispetto alle regole applicabili e consenta di continuare ad utilizzare i criteri propri d ella responsabilità contrattuale ”.
Ad ulteriore sostegno delle proprie argomentazioni, rileva il Giudice di merito che “ se fosse vero che il richiamo all’art. 2043 impone l’adozione di un modello extracontrattuale, si dovrebbe pervenire, a rigore, alla conseguenza – inaccettabile – di doverlo applicare anche alle ipotesi pacificamente contrattuali (quali sono quelle ex art. 2330 e segg.), dal momento che il primo periodo dell’art. 3, 1° co. considera tutte le possibili ipotesi di condotte sanitarie idonee ad integrare reato (che possono verificarsi indifferentemente sia nell’ambito di un rapporto propriamente contrattuale, quale quello fra il paziente e il medico libero professionista, che in un rapporto da contatto sociale) e il secondo periodo richiama tutt e le ipotesi di cui al primo periodo (“in tali casi”), senza operare alcuna distinzione fra ambito contrattuale proprio ed assimilato; non sarebbe dunque consentita la limitazione (affermata per certa da Trib. Varese cit.) del ripristino del modello aquiliano per le sole ipotesi di responsabilità da contatto ”.
E concludendo “ Deve, allora, pervenirsi alla ragionevole conclusione che, conformemente al suo tenore letterale, alla collocazione sistematica e alla ratio certa dell’intervento normativo (da individuarsi nella parziale depenalizzazione dell’illecito sanitario), la norma del secondo periodo non ha inteso operare alcuna scelta circa il regime di accertamento della responsabilità civile, ma ha voluto soltanto far salvo (“resta comunque fermo”) il risarcimento del danno anche in caso di applicazione dell’esimente penale, lasciando l’interprete libero di individuare il modello da seguire in ambito risarcitorio civile. In conclusione : l’art. 3, 1° co. l. n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell’attuale inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure funzionale ad una politica di abbattimento dei risarcimenti giacché la responsabilità solidale della struttura nel cui ambito operano i sanitari che verrebbero riassoggettati al regime aquiliano conserverebbe comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di ‘spedalità’ o ‘assistenza sanitaria’ che viene tacitamente concluso con l’accettazione del paziente), ma si limita (nel primo periodo) a determinare un’esimente in ambito penale (i cui contorni risultano ancora tutti da definire), a fare salvo (nel secondo periodo) l’obbligo risarcitorio e a sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della responsabilità (con portata sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali).

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

La ripartizione degli oneri probatori

Inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio, insegnano le 6 Sezioni Unite della Suprema Corte (sent. 577/2008 citata) “deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533″, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento. Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.
Applicando tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico si è affermato che il paziente (creditore) che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto ed allegare (non provare, ma solo allegare) l’inadempimento del sanitario (inadempimento che deve essere “qualificato”, ossia astrattamente efficiente alla produzione del danno, Cass. S.U. 577/2008), restando a carico del debitore (medico – struttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta (per il riferimento all’evento imprevisto ed imprevedibile cfr.,ex multis, Cass. 2011/15993).
Inoltre, specificando ulteriormente i principi sopra detti, la Su prema Corte ha precisato che (ex multis, Cass., Sez. Un.2008/577; Cass. 2007/8826; Cass. 17143/2012):
a. in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c., il paziente – creditore ha il mero onere di provare il contratto (o il contatto sociale), il danno psico – fisico, ed allegare il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità
b. All’art. 2236 c.c., non va assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, in quanto la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà rileva solamente ai fini
della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario..

a cura dell’ avv. Fedele e dell’ avv. De Sica

La questione in diritto

E’ senz’altro pacifico che il danneggiato, cui ai sensi degli artt. 185 e 74 c.p.p. spetta il risarcimento e non necessariamente coincidente con la vittima del reato in senso stretto, è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione o all’omissione del soggetto attivo del reato (cfr Cass. Pen. Sez. VI, n°10126 del 1997, rv.208820).

In tale ottica gli enti e le associazioni sono legittimati all’azione risarcitoria, anche in sede penale, attraverso la costituzione di parte civile, qualora abbiano riportato dal reato un danno ad un proprio interesse, coincidente con un diritto reale o comunque un diritto soggettivo del sodalizio. Pertanto qualora tale interesse subisca un pregiudizio eziologicamente ricollegabile all’azione od omissione del reo anche il sodalizio patisce un’offesa potendo lamentare un danno non patrimoniale da reato (Cass. VI, n5971990 r.v. 182947).
Il collegamento diretto tra il reato e la lesione del diritto soggettivo vantato è facilmente individuabile nella perdita di terreno nella lotta al racket delle estorsioni subito dalla compagine associativa. Difatti l’attività di informazione e formazione, tesa a far comprendere al singolo imprenditore la necessità di dover sempre denunciare alla competente Autorità tali episodi, in tal modo rompendo il muro di omertà su cui tale attività si fonda, è di fatto seriamente compromessa dal compimento di simili episodi estorsivi. Arduo sarà tornare a “sensibilizzare” chi è costantemente vittima di simili angherie.
La lesione dell’interesse proprio della persona offesa in senso stretto, prodotto da fenomeni quali il racket delle estorsioni ed i reati “satellite” che da questo traggono origine, coincide con quello fatto proprio dal sodalizio, da questo preso a cuore ed assunto nello statuto quale ragione della propria esistenza nonché diritto assoluto ed essenziale dell’associazione stessa. Emergono, pertanto evidenti, i tratti che delineano il diritto soggettivo in capo alla Associazione Antiracket territorialmente competente alla costituzione di parte civile.
E’ la compromissione delle possibilità di attuazione dello scopo sociale, il registrare da parte dei membri dell’associazione stessa una perdita di terreno nella lotta in essere tesa alla prevenzione ed alla tutela del privato dai fenomeni dell’usura e dell’estorsione, che lede il diritto di personalità del singolo socio e del sodalizio nel suo complesso.
Difatti la commissione di reati quali l’usura e l’estorsione, in un ambito territoriale coincidente con quello in cui il sodalizio opera, portavoce dell’associazionismo tra imprenditori, quale unico mezzo per contrastare il fenomeno alla radice, con una capillare attività di contrasto e prevenzione, fa si che l’associazione stessa possa lamentare, in via autonoma, “…un danno non patrimoniale a causa della frustrazione ed afflizione di quanti si erano costituiti in sodalizio per amore di interessi nella cui cura in modo più pieno avevano ritenuto realizzare la propria personalità …” (Cass. Sez. III 13/11/1992)
Gli inequivocabili scopi sociali statutari testimoniano come il danno lamentato coincida con la lesione di un diritto assoluto ed essenziale del sodalizio costituitosi, costituzionalmente tutelato dall’art. 2 Cost.; ne consegue che ogni attentato all’interesse del sodalizio si sostanzia nella lesione del diritto di personalità del sodalizio stesso.
L’Associazione si immedesima nell’interesse perseguito, l’affectio societatis verso l’interesse prescelto è statutariamente determinato. L’associazione svolge un’azione che consente di individuare la sussistenza in capo alla stessa di un diritto soggettivo autonomo che viene leso e frustrato dalla esistenza di simili sodali camorristici.

La sussistenza dei presupposti fondanti la risarcibilità del danno in capo all’associazione si sostanziano nel nesso eziologico corrente tra la condotta criminale degli imputati ed il pregiudizio derivatone all’attività di sensibilizzazione ed impulso alla denuncia quotidianamente svolta dall’associazione nelle sue molteplici azioni sul campo.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello

Le richieste di risarcimento danni

Le richieste di risarcimento danni – Natura meramente risarcitoria e non lucrativa delle richieste economiche in sede processuale

Le attività poste in essere dalle associazioni antiracket, oggetto del presente lavoro, il loro continuo rigenerarsi attraverso processi di aggregazione tesi a far si che sempre più imprenditori in sempre maggiori realtà territoriali trovino la forza di reagire di concerto con Istituzioni locali ed Autorità Giudiziaria, richiedono necessariamente per i referenti delle associazioni stesse la capacità di trasmettere all’utente sicurezza ed affidabilità.
A queste imprescindibili caratteristiche dell’operatore antiracket devono necessariamente aggiungersi la capacità tecniche di affrontare le problematiche in primis socio-psicologiche e di seguito tecnico-giuridiche del caso specifico, nonché un corretto e funzionale rapporto delle stesse con Istituzioni ed Autorità Giudiziaria procedente.
Si comprende come tutto questo, nonché le necessarie attività di formazione ed informazione proprie e tipiche delle associazioni, richiedano necessariamente l’impiego di risorse, umane ed economiche. Sedi operative, consulenze psicologiche, legali nonché tutto quanto attiene alla continua attività di formazione ed informazione alla legalità, da esercitare in maniera continuativa e costante sul territorio. Contrastare la sottocultura dell’illegalità in cui la camorra prolifera investendo milioni di euro, richiede a sua volta l’impiego di capitali.
Costi. Costi che sono tanto maggiori quanto maggiore è l’azione e l’intervento richiesto all’associazione sul territorio ed in riferimento alla contestuale pregnanza di sodali camorristici più o meno radicati. La loro esistenza ed operatività viene indiscutibilmente ad incidere sulla quantità di risorse economiche ed umane di cui avrà bisogno l’associazione antiracket al fine di operare.
Il danno arrecato all’associazione, come su ampiamente analizzato e riconosciuto, si sostanzia nella frustrazione stessa dello scopo sociale assunto dagli associati nonché nell’arretramento alla lotta al racket delle estorsioni e dell’usura oggetto della continua campagna di informazione e formazione alla legalità che l’associazione pone in essere sul territorio.
Le richieste di risarcimento danni vanno pertanto in questo senso, l’associazione che di volta in volta si costituisce parte civile, contestualmente ad affiancare la vittima che autonomamente agisce contro i propri aguzzini, richiede al giudice in sede penale e poi in sede civile la quantizzazione di una danno economicamente valutabile che, se soluto, porrà in condizione l’associazione stessa di aumentare il proprio raggio di azione ed incidenza sul territorio.
L’idea è semplice. Natura meramente risarcitoria del danno e richiesta finalizzata alla possibilità di reperire, in via solidale tra i partecipi condannati del sodale camorristico, i fondi necessari ad operare sul territorio.

a cura dell’ avv. Alfredo Nello e dell’ avv. Alessandro Motta

Esperienza di avanguardia

Una esperienza d’avanguardia
L’associazionismo antiracket sorto in Sicilia oltre venti anni fa, è nato e sperimentato in Campania solo da pochi anni, nuovi meccanismi, l’assistenza alle vittime di estorsione ed usura, una sempre farraginosa macchina burocratica che dovrebbe in tempo reale assicurare i risarcimenti alle vittime della mafia, fanno dell’associazionismo antiracket e del suo modo di opporsi fuori e dentro al processo una esperienza indiscutibilmente di avanguardia ed in aperto contrasto a consorterie criminali in possesso di enormi patrimoni.
Al contrario l’esperienza dell’associazionismo antiracket è ad oggi spesso legata a labili finanziamenti regionali, provinciali o comunali, che mettono in condizione gli operatori del settore di lavorare sempre in uno stato di continua precarietà in bilico tra militanza e volontariato, di certo al di sotto delle potenzialità che il fenomeno potrebbe esprimere e manifestare.
Decidere di assistere una vittima del racket, implica la necessità di possedere sul campo un forte consenso popolare. Il consenso si ottiene attraverso la creazioni di sedi, attraverso l’assunzione di personale, attraverso una continua campagna in favore della legalità, garantendo al contempo la sicurezza personale di vittime ed operatori. Questo richiede risorse economiche stabili. Due sono le alternative: la istituzionalizzazione delle associazioni antiracket o la possibilità per le stesse di ottenere con immediatezza dallo stato i risarcimenti riconosciuti dalle sentenze dei giudici di merito.
Tra mille difficoltà date dalla precarietà con cui sono spesso costrette a sopravvivere ad oggi ed in riferimento alla sola regione Campania questi sono i dati salienti della contrasto ad attività di estorsione ed usura – si tiene a precisare come i dati indicati siano relativi ai procedimenti di maggiore rilevanza ed a decorrere dal 01.01.05 – da consultare nella sezione I processi e la giurisprudenza

a cura dell’ avv. Alfredo Nello